«Sono stato in magistratura per 50 anni, eppure gli interrogatori di Ciancimino si sono rivelati particolari, un tormentone». Dopo Luciano Violante anche Gian Carlo Caselli, ex procuratore capo di Palermo, torna a parlare davanti ai giudici. Sentito durante il primo grado del processo sulla trattativa Stato-mafia, viene riascoltato oggi in occasione dell’appello, ripercorrendo i momenti successivi all’arresto di Vito Ciancimino, gli interrogatori e le speranze dell’epoca perché collaborasse. «Lui era viscido, sfuggente, arrogante – dice oggi Caselli di don Vito -. Speravamo che collaborasse sugli appalti, da ex sindaco e assessore se avesse voluto ci sarebbe stato un oceano da percorrere con la nostra barchetta e guidati da lui. Un tema che non ha mai aperto. Di appalti non voleva parlare, di rapporti mafia-politica non voleva parlare, dopo un po’ mi stufai. E si stufò anche lui, diventando sempre più insofferente e scostante. Ho lasciato soli a coltivare quelle speranze di collaborazione Ingroia e Patronaggio».
Ci sono, tuttavia, delle immagini impresse nella sua memoria, malgrado siano trascorsi oltre vent’anni da quegli interrogatori con lui. «Cosa mi ricordo? L’odio viscerale di Ciancimino per Falcone, non perdeva occasione per insultarlo. E poi non faceva che parlare del suo libro, per lui una sorta di memoriale, voleva che tutti lo leggessero, che tutti lo conoscessero. E non solo i magistrati di Palermo, persino Antonio Di Pietro a Milano. Ripeto, il suo problema era solo sputare addosso a Falcone e farci capire che noi non contavamo niente». Ma a un certo punto Caselli si tira fuori. «Tutto quello che lui ci ha detto è messo a verbale, fedelmente riportato, all’epoca non ancora sufficienti per parlare di trattativa. C’era anche Ingroia che ascoltava e verbalizzava, che non ha avuto il minimo dubbio, sarà proprio lui in seguito a far partire l’indagine sulla trattativa dopo aver acquisito altri e più corposi dettagli – spiega -. Tutto quello che so è in quei verbali, che fanno fede, non posso ricordarmi altro dopo 30 anni. Ciancimino era in galera ormai. Onestamente e umilmente oggi non so cos’altro dire di richieste, mappe, autorizzazioni. Noi volevamo convincerlo a parlare di appalti e di rapporti tra mafia e politica, questa era la direzione. Con lui era parlare morto, tutto gli era dovuto». Durante quegli interrogatori ci sarebbero anche i militari del Ros Mori e De Donno, per esplicita richiesta di Ciancimino.
Un altro tasto dolente è quello della mancata perquisizione del covo di Totò Riina, dopo il suo arresto il 15 gennaio ’93, per Caselli «un momento pessimo, brutto», che gli suscitò nel tempo non pochi interrogativi. «Noi volevamo perquisire subito. Il capitano del Ros De Caprio (il capitano Ultimo ndr) no, io mi sono fidato, per molti era ancora un mito, quello che aveva messo le manette a Riina. Ma questo ritardo era comunque subordinato alla sorveglianza, che invece fu interrotta subito senza che ci fu detto nulla. Nelle lettere Mori dirà “abbiamo deciso senza avvertirvi perché questo rientra nella nostra autorità decisionale e operativa”. Mi sono fidato di questa spiegazione. Io ero appena arrivato in una procura, quella di Palermo, ancora attraversata da scontri. Falcone, eroe da morto, da vivo era stato professionalmente perseguitato. E quella procura era uno sfascio da ricostruire. Questo momento terribile del covo che avrebbe potuto rovinare la procura fu paradossalmente uno stimolo per andare avanti, tutti insieme, senza alcun compartimento stagno».
Prima di quella pagina terribile, della mancata perquisizione del covo e della fatidica cattura del capo dei capi, c’è un incontro tra Caselli e Mori, tirato in ballo oggi. È il 10 gennaio ’93, i due hanno appuntamento per pranzo. «Ci sono delle cose che obiettivamente stridono – dice, rispetto a quanto raccontato da Mori stesso nel 2016 -. Appena arrivato, lui viene informato della possibilità di arrivare a Riina, perché Balduccio Di Maggio, storico autista del boss, voleva collaborare». Una notizia che monopolizza del tutto quell’incontro, i due non parlano d’altro. «L’adrenalina era a mille, si trattava di arrestare Totò Riina, il capo dei capi, ci siamo concentrati spasmodicamente su quello, non c’è stato nessuno spazio per altri argomenti – racconta -. Ero ed eravamo tutti presi dalla prospettiva di catturare Riina. Non c’era tempo per occuparsi altro, nient’altro in quel momento mi poteva interessare in quelle vesti».
È sempre il 1993 quando si parla di carcere duro, all’epoca un tema su cui la procura era piuttosto sensibile. A novembre di quell’anno non vengono prorogati 334 decreti di 41 bis ad altrettanti mafiosi da parte dell’allora ministro della Giustizia Conso per rendere meno ostile Cosa nostra. «Ero arrivato a Palermo da pochissimo – dice Caselli -. La nostra posizione come procura e la mia persona come procuratore capo sul 41 bis è stata comunque di una nettezza tale da venire definiti dei forcaioli. Siamo stati e siamo tuttora univoci, la procura di Palermo ha sempre detto “no, no e no”. La Dda si riuniva periodicamente, magari si è affrontato il tema, ma noi abbiamo detto di no in toto ad allentamenti di quel regime, era una questione di principio – continua -. Il 41 bis ha aiutato lo Stato italiano a risollevarsi dopo le stragi, a rialzare la testa, se no saremmo finiti chissà dove, al di là delle speranze del legislatore e degli operatori. Quella forma di isolamento ha privato il mafioso di quella sorta di solidarietà di cui poteva godere all’Ucciardone in stile hotel 5 stelle. Una posizione sempre netta e precisa. Io avevo un ottimo rapporto con il professor Conso, su questo argomento però non mi ha mai detto assolutamente niente. Il 41 bis è irrinunciabile tuttora, non si può decidere diversamente».
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