Case che diventano ristoranti e laboratori culinari Un disegno di legge per regolare il settore in Sicilia

Case che diventano ristoranti dedicati soprattutto ai prodotti tipici locali utilizzati in ricette tradizionali. Cucine che diventano laboratori culinari aperte a sconosciuti che possono anche dare una mano ai fornelli. Gli home restaurant o home food, tendenza nata a New York circa dieci anni fa, negli ultimi anni hanno preso piede anche in Italia tramite internet e i social network. Un fenomeno sociale e culturale che si è sviluppato in modo disordinato, senza regole. Adesso per disciplinare queste attività nell’Isola è arrivato un disegno di legge che ha come prima firmataria la deputata regionale del Movimento 5 stelle Angela Foti.

Lo scopo della proposta è «valorizzare e tutelare il patrimonio enogastronomico locale, creando nuove opportunità reddituali di tipo complementare e, al tempo stesso – si legge nel documento – di sanare un gap normativo generato dalla attuale diffusione del fenomeno». Secondo il rapporto Coldiretti/Censis del 2017, gli italiani che mangiano regolarmente negli home restaurant sono 3,3 milioni, coloro che praticano con regolarità il social eating sono 3,1 milioni. 

Il primo requisito richiesto per un home restaurant è che l’immobile sia la residenza o il domicilio della persona che svolge l’attività a gestione familiare, utilizzando parte della propria abitazione. Dovrà essere presentata «una segnalazione certificata di inizio attività (Scia) allo sportello unico delle attività produttive (Suap) del Comune sul cui territorio insistono la struttura o l’immobile da destinare all’attività». L’esercizio, in ogni caso, sarà subordinato al «rispetto delle procedure previste dall’attestato dell’analisi dei rischi e controllo dei punti critici (Haccp)», viene precisato nel disegno di legge. 

Altra cosa fondamentale è stabilire un criterio che segni la differenza tra attività occasionale e continuativa. Nella proposta presentata all’Ars è considerata saltuaria se «non supera il numero massimo di otto aperture mensili e di cinquanta in un anno», altrimenti diventa stabile anche ai fini dell’applicazione del regime fiscale previsto. 

Inoltre sarà il Comune – anche su segnalazione di altre autorità competenti, in caso vengano meno le condizioni che legittimano l’esercizio dell’attività – ad assegnare un termine per il ripristino e a ordinare l’eventuale sospensione fino a 60 giorni, prorogabili una sola volta. Se i proprietari non si rimettono in regola, «trascorso il periodo di sospensione dell’esercizio – si legge nel documento – il Comune dispone la cessazione dell’attività».

Marta Silvestre

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