Esistono sentimenti e valori universali, che per quanto variabili a seconda di tempi e luoghi, si equivalgono in ogni parte del mondo. La casa, o meglio il sentirsi a casa, è tra questi. Così quando chiediamo a Giovanna Scifo, responsabile della Casa delle culture, centro per immigrati di Scicli il significato del nome della struttura, lei risponde: «Volevamo una casa, ma non una qualunque: una casa che accogliesse tante nazionalità diverse. E, infatti, accogliamo tunisini, marocchini, ghanesi e persino sciclitani, che si recano nel centro per interagire con i nostri ragazzi».
Nata da un progetto della federazione delle Chiese evangeliche in Italia, la Casa delle culture si inserisce nell’ambito del più ampio piano internazionale Mediterranean Hope, che abbraccia anche Lampedusa, con lo scopo di dare accoglienza ai nuovi immigrati. Un progetto che non trae nessun aiuto – almeno per il momento – né dai fondi per l’immigrazione stanziati dall’Unione Europea, né dallo Stato Italiano. Un impegno religioso – quello, appunto, delle Chiese evangeliche – che si traduce però in un piano d’azione concreto e laico, basato sulla libertà di scelta; finanziato con il sostegno dell’otto per mille ricevuto dall’Unione delle Chiese Evangeliche in Italia e con contributi provenienti dalla Chiesa evangelica tedesca.
«E’ un progetto che nasce dalle chiese – spiega la responsabile -. Stiamo agendo in autonomia, occupandoci dell’accoglienza per come le chiese la vedono: accogliamo persone che vogliono incontrare altre persone, oltre che occuparci di loro in senso logistico, dandogli da mangiare, coperte e tutto ciò di cui hanno bisogno dal punto di vista materiale. Anche la comunità sciclitana ci sta aiutando in questo senso».
Eppure l’accoglienza non è stata subito a braccia aperte. L’apertura del centro è stata ostacolata inizialmente su vari fronti, in particolare dai commercianti del centro storico e dai militanti del partito di estrema destra Forza Nuova, che si sono presentati all’inaugurazione – avvenuta nel dicembre 2014 – con striscioni e bandiere di protesta. Mille e duecento le firme raccolte in una petizione per impedirne l’apertura; mentre i sondaggi locali davano il 70 per cento della popolazione contraria al centro. Ciò con l’accusa persino di poter «deturpare il paesaggio storico», riferisce Giovanna Scifo.
Anche alcune associazioni sciclitane avevano espresso le proprie perplessità, tramite la stampa. Il 15 Novembre 2014, le associazioni Pro.Svi, Crescere Scicli e Ainlu Kat avevano sottoposto ai cittadini alcune osservazioni generali, proponendo di spostare il centro in un’area «più opportuna», sempre che la pubblica amministrazione disponesse di adeguate risorse economiche ed umane «per effettuare un rigoroso controllo del territorio». «In fondo se uno volesse fare un’analogia – si legge nel comunicato, pubblicato online – aprire un centro di accoglienza su Corso Mazzini equivarrebbe a mettere un centro di raccolta per extra – comunitari nel bel mezzo di via del Corso a Roma». Ciliegina sulla torta, poi, la scritta «vergogna» sulla saracinesca del locale dove il centro sarebbe sorto. A peggiorare il clima aveva contribuito il ricordo di un episodio di due anni prima, quando una dottoressa di guardia notturna era stata violentata da due extracomunitari nell’ex guardia medica in centro.
Un’ostilità che col tempo si è fortunatamente tramutata in integrazione e che ha visto subito la reazione di una parte della popolazione, in particolare dell’ex sindaco, Franco Susino, dell’ex giunta comunale e degli alunni del liceo Quintino Cataudella, dissociatisi da ogni forma di razzismo e xenofobia.
Oggi la Casa delle culture accoglie tredici persone, tra cui una neonata di pochi mesi, cinque neodiciottenni, tre adulti e quattro minorenni, salvati nell’operazione Mare Nostrum e provenienti da Ghana, Eritrea, Gambia, Senegal, Marocco e Nigeria.
La Casa delle culture non è la loro destinazione definitiva: la sua funzione è di restituire immediatamente il senso di casa – appartenenza a chi questa sensazione l’ha smarrita a causa delle violenze subite. Solo pochi mesi, però, per poi proseguire il proprio percorso presso gli ordinari centri di accoglienza. «La maggior parte di questi ragazzi è stata picchiata – racconta la responsabile – anche ai più piccoli sembra che abbiano rubato l’anima».
Una rete di professionisti opera nel centro: mediatori, educatori, psicologi, pedagogisti, operatori linguistici. Provano a rimettere insieme pezzi di vite che altrimenti rimarrebbero spezzate. Un lavoro supportato da iniziative per l’integrazione.
Tutti i ragazzi frequentano la scuola. Spesso i compagni di classe li raggiungono nel centro in cui si organizzano cene, spettacoli, eventi, come in un qualsiasi pub di Scicli. Toccante il racconto dell’incontro casuale tra due cugini, che si sarebbero ritrovati durante una festa organizzata a Vittoria e che si sarebbero riconosciuti ed abbracciati come fratelli, dopo essersi creduti morti a vicenda. «In Africa – conclude la responsabile – i cugini si considerano come fratelli ed è stata “fratellanza” che abbiamo visto in quell’abbraccio, esploso all’improvviso sotto i nostri occhi».
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