«Può diventare un sofisticato strumento di tortura». Questa la definizione che ha usato Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali, per descrivere il 41 bis, cioè il regime di cosiddetto carcere duro che si applica ai detenuti condannati per la loro appartenenza a un’organizzazione criminale, che sia mafiosa o terroristica. Soggetti verso i quali sussiste la necessità di impedire eventuali contatti o passaggi di ordini con i membri rimasti fuori. Una posizione che non è stata affatto condivisa da alcuni magistrati palermitani, che hanno sottolineato, invece, l’utilità della misura.
L’occasione dell’intervento di Migliucci è stata quella del XVI Congresso dell’associazione tenutosi a Bologna a inizio mese, durante il quale il presidente dell’associazione degli avvocati dei penalisti ha sottolineato la necessità di avviare una battaglia contro «l’ingiustificata durezza» della misura e contro lo strumento in sé. Dichiarazioni pronunciate in un contesto ufficiale che non possono non riaprire le discussioni sul regime di carcere duro. Secondo uno studio dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, infatti, il tasso di suicidi fra i detenuti in regime di 41 bis è superiore del 3,5 per cento rispetto alla frequenza con cui avviene fra gli altri carcerati.
Le restrizioni previste da questo strumento consistono soprattutto nel divieto di entrare in contatto con altri reclusi e di ricevere libri o giornali dall’esterno, con la possibilità di vedere un solo familiare attraverso un vetro divisore una volta al mese. Per il resto, le giornate trascorrono in isolamento per 22 ore. Un provvedimento, questo, che si deve all’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, che escogita il regime del carcere duro all’indomani dell’attentato di via D’Amelio: una risposta forte alla stagione stragista della mafia, che sarebbe stato anche al centro della presunta trattativa Stato-mafia.
«È un discorso che non si esaurisce solo in alcune battute». Questo il commento di Leonardo Agueci, procuratore aggiunto al Tribunale di Palermo, che non condivide le riflessioni del presidente Migliucci. «La Corte Costituzionale ha ritenuto il 41 bis conforme a legge – continua il magistrato – Oltre a essere uno strumento che ha dato un enorme contributo nella lotta contro la mafia».
«Non mi sentirei di parlare di eccessiva durezza del regime speciale – prosegue – Viene applicato in modo oculato e proporzionato alle esigenze di giustizia ed è una situazione che il legislatore, anche costituzionale, ha affrontato da tempo e non ci sono affatto le condizioni per una modifica». In difesa del carcere duro interviene anche il procuratore aggiunto Maurizio Scalia, impegnato, al pari di Agueci, in diversi processi a carico di mafiosi. «C’è una norma che regola il regime di 41 bis. Stiamo parlando di una misura che viene applicata nel rispetto delle norme».
Migliucci affida la sua controreplica a Meridionews: «Il carcere duro», approfondisce, «ha dei profili di incostituzionalità e di durezza eccessiva perché si pone in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione. Tutto quello che non rientra nello scopo esclusivo di interrompere le relazioni fra il detenuto e la criminalità esterna si traduce in un’attività ultronea agli scopi della norma e perciò illegittima». Secondo il presidente dell’Unione delle Camere penali non sono mancate le personalità che si sono pronunciate sull’argomento, da Papa Francesco al senatore Luigi Manconi. Anche il comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa ha invitato ad adottare misure meno afflittive per il regime del 41 bis. «Occorre chiedersi se questo regime speciale si allinei o meno all’idea secondo cui una pena debba essere dignitosa e rieducativa, come prevede la Costituzione», conclude il presidente.
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