«I primi mesi, dopo le tragedie patite e la traversata in mare, essere in Italia, avercela fatta è una gioia. Poi, però, sono insofferenti, ossessionati dai documenti ma è comprensibile, alcuni sono nel centro da più di un anno e pressano per avere notizie. Facciamo il possibile, sollecitiamo la Prefettura e li aiutiamo nei passaggi legali, ma i tempi della burocrazia non dipendono da noi. E così perdono la calma».
A raccontarlo a MeridioNews è Francesco, mediatore culturale in uno dei tanti centri di accoglienza straordinaria (Cas) nell’Isola, che punta il dito contro i tempi di attesa troppo lunghi per ottenere lo status di rifugiato politico: da un anno fino a 18 mesi per essere ricevuti dalla commissione territoriale. Poi, possono passare da 45 giorni fino a 4 mesi per avere il responso che, in alcuni casi, può essere l’espulsione. In questo caso è possibile ricorrere ma tocca ripetere lo stesso iter. Prima di ottenere i documenti i richiedenti asilo, quindi, devono attendere all’incirca un anno e mezzo, sospesi in un limbo. Eppure più della metà di loro andrebbe volentieri via dall’Italia, vista come porta d’accesso per l’Europa. Nel frattempo, gli arrivi sulle nostre coste non accennano a diminuire e l’emergenza, presunta o reale, è destinata solo ad amplificarsi.
«I ritardi – spiega Carlotta, la responsabile del Cas – sono legati ai tempi che impiega la commissione per esprimersi sui singoli casi. Fino a qualche mese fa erano solo dieci in tutta Italia ma, da marzo, il numero è raddoppiato, anche a Trapani. Al momento, tuttavia, non sembra esser cambiato molto. L’attesa è una sofferenza e gestirli non è affatto semplice». La convivenza spesso è complicata, amplificata dalla vicinanza forzata di culture molto diverse. «Tanti – chiarisce Francesco – hanno vissuto esperienze traumatiche, la schiavitù, sevizie e necessitano di un supporto psicologico. Per maggior parte di loro i tempi della burocrazia italiana sono incomprensibili e i momenti di tensione non mancano: qui dormono e mangiano gomito a gomito musulmani e cristiani».
L’Europa garantisce loro «ogni giorno dai 29 ai 35 euro a persona» e di questi solo «2.50 euro rimangono nelle tasche degli immigrati. Il resto – spiega la responsabile – serve per le altre spese». Dentro l’atmosfera è tranquilla ma la sensazione è che il tempo sia sospeso in maniera indefinibile. Un sosta prolungata che a volte lascia il posto alla frustrazione e alla rabbia. Il caso più eclatante un ospite nel centro da 597 giorni: la sua domanda è stata respinta, ha fatto ricorso e ora attende l’esito, bloccato suo malgrado.
Non sono mancati, tuttavia, i casi di intolleranza da parte della comunità locale. «Molti degli richiedenti asilo – prosegue la responsabile – svolgono lavori umili, come muratori o puliscono i giardini o i lidi. Non disturbano e non rappresentano una minaccia ma, ultimamente, si sono ripetuti episodi di razzismo, lanci di bottigliette d’acqua e pietre e, in un caso, qualcuno ha sparato pallini di piombo colpendo un ragazzo a un occhio che fortunatamente non ha riportato danni gravi». Ma la maggior parte di loro non è interessata alla protezione internazionale. Più della metà vorrebbe andar via e si sottraggono al sistema di accoglienza per non esser legati al nostro Paese fino al riconoscimento di rifugiato politico.
«Moltissimi sanno già dove andare – dice Francesco – così scappano o rifiutano di farsi identificare, alcuni hanno proprio il terrore. È capitato anche qui da noi con un gruppo di siriani, a loro interessava richiedere asilo in Danimarca. Sono arrivati e ad attenderli c’era già pronto un bus che doveva portarli in Europa. La colpa è del sistema». Il riferimento è al regolamento di Dublino che “intrappola” nei centri centinaia di persone che in realtà vorrebbero andar via. Dopo il riconoscimento, infatti, i richiedenti asilo non possono lasciare il Paese fino a al riconoscimento della commissione di rifugiati. In caso contrario, se venissero pizzicati in un altra nazione europea, verrebbero considerati clandestini e rispediti nel primo Stato che li ha accolti.
Così è successo a Mohamed, somalo di 25 anni sbarcato nel 2010 a Bari. Dopo essere stato identificato è fuggito, raggiungendo gli zii in Olanda. Qui ha vissuto per diversi anni. Poi, durante un controllo, è stato spedito in Sicilia. Lui non capisce, ripete incessantemente la parola «documenti», l’unica via di fuga da un luogo che «si è impossessato della sua vita». Ma può anche accadere, come nel caso di Mamadou, un ragazzo di 23 anni originario del Gambia, di attendere 18 mesi per scoprire che il giorno fissato per l’incontro con la commissione territoriale non ci sia nessuno a riceverlo. Il 23 aprile, infatti, i funzionari non si sono presentati perché impegnati in un altro luogo. Si è trattato sicuramente di una svista, ma nessuno ha avvertito Mamadou che, ad ogni modo, ora deve attendere altri quattro mesi per conoscere il suo destino.
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