Molto spesso si crede di poter individuare la realtà in ciò che un amico ci racconta riguardo ad un fatto a lui accaduto e da lui vissuto in prima persona, oppure in ciò che un fotografo immortala in un suo scatto o un cameraman in una sua ripresa. La realtà è talvolta scambiata per ciò che un telegiornale divulga o per ciò che è letto su un giornale o ascoltato alla radio. Se però crediamo davvero che l’oggetto più complesso che esista possa essere arginato entro tali limiti, confini o in altri vincoli analoghi, allora probabilmente non abbiamo con la stessa realtà un rapporto tale da poterne comprendere l’essenza. Ed è forse rappresentazione il termine che in grado di ridimensionare il medesimo significato della parola realtà, in quanto quest’ultima non ci è che rappresentata, ovvero mostrata sinteticamente per poterne cogliere degli aspetti che delineino un messaggio da comprendere. Per questo la realtà risulta in ultimo ineffabile, composta da infinite sfaccettature che non possono essere prese in considerazione tutte insieme nella loro totalità, poiché ciò risulterebbe semplicemente impossibile. L’uomo vive di rappresentazioni di se stesso, degli altri e dell’ambiente che lo circonda, ed è proprio tale riduzione che lo rende l’unico animale creatore e consumatore di simboli, nel cogliere gli aspetti funzionali dalla realtà per significarli e adoperarli, creando un habitat di significato, condiviso da altri individui, senza il quale non potrebbe vivere.
Anche i media adoperano un proprio metodo di sintesi, adoperato per trasmettere dei messaggi di varia natura. Tali messaggi vengono emessi non in quanto tali ma spiegati e raccontati da uomini – i giornalisti o altre figure professionali -, che li hanno a loro volta ricevuti da altri uomini – tramite direttive da parte di dirigenti, persone intervistate, atti pubblici, ecc. Con le premesse fatte, credere, ad esempio, che un qualsiasi telegiornale possa trasmettere la realtà in quanto tale appare dunque come qualcosa al limite del ridicolo, se non addirittura fuori dal mondo o utopico. Così, notizie, argomenti, immagini potenzialmente trasmissibili, riguardanti l’intera e sconfinata realtà, non vengono nemmeno sfiorati, sebbene nulla sia in grado di farci credere a priori che vi sia qualcosa di cui parlare che non meriti di essere discusso. E’ proprio chi trasmette la notizia che, consapevolmente o meno, parla di un solo argomento pescato tra un’infinità di avvenimenti raccontabili, evidenziando o emarginando elementi del medesimo discorso intrapreso così da dare rilievo a qualcosa pittosto che a qualcos’altro, ma dando anche accezioni che possano essere intese dal ricevente del messaggio come positive o negative. Un esempio di ambiguità informativa, sebbene alquanto distante dai media per come è stata divulgata, ma sicuramente attinente al principio di fondo che si intende qui esaminare, potrebbe essere la figura di un personaggio storico come William Wallace: la sua stessa persona è interpretata come quella di un eroe dagli scozzesi, come quella di un criminale e traditore dagli inglesi. Wallace era però un solo uomo: è infatti la cospicua armatura di significato a lui attribuita da due punti di vista umani differenti che dà al personaggio la sua valenza eroica o quella criminale.
Altri personaggi o avvenimenti, al contrario, vengono del tutto tralasciati dalle cosiddette agenzie sociali – ovvero quelle che hanno il potere di costruire le stesse fondamenta culturali di una società, come proprio i media o le scuole -, poiché considerati non funzionali all’auspicata crescita culturale della società stessa. Si considera, per questo, che vi sia un non meglio identificato volere superiore che decida a monte cosa possa essere funzionale e cosa non possa esserlo a chissà quale crescita culturale della società, mentre può trovarsi, nella massa di individui che credono ciecamente in tale principio educativo sociale, qualcuno che non appaia d’accordo e che giudichi invece importante discutere anche d’altro.
Tirando le fila del discorso intrapreso, qui oggi si nomina Antonio Canepa, un personaggio affatto famoso come Wallace. La sua vita è sconosciuta alla stragrande maggioranza degli italiani, dei siciliani. Eppure c’è chi dice che quest’uomo fosse un eroe, che valga la pena ricordarne la vita e le circostanze di morte, sopraggiunta il 17 giugno 1945, presso la contrada di Randazzo (CT) denominata Murazzu Ruttu. Canepa era un professore universitario trentenne e comandante di un esercito al quale aderirono numerosissimi giovani, alcuni rimasti uccisi, come lui, per un ideale: l’indipendentismo siciliano. Quello stesso giorno di 67 anni fa morirono infatti un giovane di 18 e uno di 22 anni – Carmelo Rosano e Giuseppe Lo Giudice, entrambi studenti – in un agguato dei Carabinieri sul quale non è nemmeno stata data una versione ufficiale definitiva, da parte di chi ha avuto la possibilità di fornirla.
Ogni anno, in quel di Randazzo, un gruppo sempre più cospicuo di persone si riunisce per ricordare i fatti di quell’estate. Chi era Canepa? Forse non lo sapremo mai con certezza, proprio per la stessa ineffabilità della realtà di cui si è discusso. Oggi, però, per migliaia di persone in Sicilia, egli era ed è un eroe.
Ed è questo ciò che conta e che non può essere ancora taciuto.
Randazzo 17 giugno 1945: una strage premeditata
Per non dimenticare Antonio Canepa
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