Brancaccio, 24 anni senza padre Puglisi «Bilancio positivo, ma la mafia c’è ancora»

«Il bilancio che facciamo oggi, a distanza di 24 anni, non può che essere positivo. Nonostante tutte le difficoltà che chi ha continuato la sua opera a Brancaccio ha incontrato in questi anni». A parlare così è Maurizio Artale, presidente del Centro Padre Nostro, fondato dal beato solo nove mesi prima di venire ucciso il 15 settembre del 1993, davanti al portone di casa. «Tutte le infrastrutture che sono nate a Brancaccio non ci sarebbero oggi senza l’opera di padre Puglisi e del Centro, non ci sarebbe nulla – continua – Però la cosa veramente importante è che anche le coscienze cominciano a capire, a svegliarsi, la gente di Brancaccio sta cominciando ad abituarsi alle cose belle, a vedere i luoghi ristrutturati e arispettarli. C’è sempre quello che poi ti frega la pianta o che rompe qualcosa, ma sono cose ormai sporadiche».

Un lavoro silenzioso, quello del Centro fondato da Puglisi, ma costante e che in tutti questi anni non si è mai piegato o arreso alla malavita e alla maleducazione. «Penso che oggi don Pino sarebbe fiero del lavoro che stiamo facendo, soprattutto coi ragazzi, ai quali diamo la possibilità di scegliere la loro strada, di confrontarsi con la vita», dice Artale, che parla di una sensibilità, fra cittadini, istituzioni e diocesi, che va ampliandosi sempre di più. e la prova è anche la partecipazione della comunità agli appuntamenti organizzati per ricordare proprio padre Puglisi. «Se ancora non c’è una totale adesione è perché va fatto un lavoro costante nel territorio e la parrocchia ha un ruolo fondamentale in un quartiere come quello, il catechismo deve essere particolare, li deve sensibilizzare a quello che è stato questo grande dono, un fiore all’occhiello di cui vantarsi – precisa – Ma se non sei abituato a farlo, devi essere educato in questa direzione e il percorso è lungo».

«Se non rubano più le lampadine da piazza Anita Garibaldi – luogo dov’è stato ucciso don Pino – è perché io tutte le sere, in qualità di cittadino, passo da là a controllare, giro con le lampadine nuove nel cofano della macchina. Questa gente deve essere educata alla sensibilità. Anche il Comune a piccoli passi comincia a sensibilizzarsi, però ancora non mandano un giardiniere a prendersi cura del piazzale». Secondo lui, da parte delle amministrazioni cittadine ci vorrebbe una presenza costante e un pugno più rigido per fare rispettare le regole. Ma il Centro sta già raccogliendo quanto seminato in tutti questi anni: «I ragazzi che incontriamo ai campi scuola, al Centro, alle colonie estive stanno facendo un percorso educativo preciso e noi i frutti li vendiamo – racconta Artale – Chi viene in motorino ora mette il casco, molti non fumano più dentro i locali in cui ci riuniamo e qualcuno ha smesso del tutto. La strada è questa, lunga e tortuosa».

Secondo lui, però, a mancare ancora oggi, come 24 anni fa, è una certa presenza dello Stato, presente quando c’è da condannare, ma assente quando occorre ripensare a dei percorsi di inserimenti e di crescita culturale per i ragazzi di un quartiere come Brancaccio. «Vicino la rotonda Zarcone l’altro giorno hanno rubato quattro tombini di ghisa. Tutti scandalizzati si sono chiesti: “e se qualcuno ci finisce dentro?” Nessuno si è chiesto perché li hanno rubati – insiste lui – Perché chi lo ha fatto probabilmente cercava dieci euro per poter mettere almeno la cena a tavola. I politici non si sono mai messi dall’altra parte, cosa che invece padre Puglisi ha fatto». Per aiutare un quartiere, insomma, il requisito minimo sembra essere, secondo lui, quello di conoscerne gli abitanti, la mentalità, le fragilità soprattutto. «Quelle famiglie che oggi si ritrovano col capofamiglia in carcere, vengono aiutate e alimentate dalla mafia. È il ragazzino di 11 anni diventa il nuovo capofamiglia, sente di doversi prendere cura della madre e come pensate che possa fare? prosegue Artale – Si mette al servizio di quelli più grandi, magari andrà a mettere l’attack nei catenacci o andrà a incendiare saracinesche. La politica dovrebbe essere la cosa più bella, invece l’abbiamo trasformata in posti di lavoro».

È durissimo il suo giudizio, da cittadino che Brancaccio la vive nel quotidiano, quartiere al quale, come prima di lui don Pino, ha deciso di dedicarsi. «La mafia di Brancaccio esiste ancora. Poco tempo fa hanno arrestato solo nel quartiere 34 persone. Di questi, quattro erano utenti del Centro Padre Nostro – racconta ancora – Uno vendeva il pane davanti alla statua di padre Pio, tutte le volte che passavo da là mi diceva “Maurì, ma un travagghiu mu trovi?”, questo loro ti chiedono. Lui guadagnava tre euro al giorno, cioè 90 al mese, sfido chiunque a campare una famiglia in queste condizioni. Rubava la luce e l’acqua, ma cosa pretendiamo? Non hanno scelto di vivere così. Rubano tombini, rubano il rame, ma che reati sono? Che se ne fanno? Sono reati di fame».

Silvia Buffa

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