Una lista dei picchiatori di Ballarò, telefoni e sim intestate ad altri, frustini per rabbonire e punire, più i pentimenti. È questo che scoprono gli investigatori dopo i primi arresti che hanno colpito i membri della cosiddetta Black Axe, l’associazione criminale di mafia nigeriana trapiantata nel cuore di Palermo. A raccontarlo oggi davanti ai giudici della prima corte d’assise, dove si celebra un troncone del processo scaturito dall’inchiesta del 2016 a carico di cinque imputati che hanno scelto il rito ordinario, è l’assistente capo Alessio Lombardo, in servizio alla mobile di Palermo. «Mi sono occupato di ascoltare con gli interpreti le intercettazioni telefoniche e ambientali e di alcune perquisizioni in abitazioni dei soggetti arrestati», spiega subito.
Il suo racconto, però, non si fa mai avvincente. E, anzi, a sentirlo bene, sembrano quasi mancare proprio quei dettagli cui è stato chiamato a riferire. Malgrado si tratti di indagini da lui svolte in prima persona, a riecheggiare in aula sono fin troppi “non ricordo”, “non lo so”, “sarà scritto nel cd agli atti”. E oltre alle sue dimenticanze, a emergere sono anche alcune lacune di cui avrebbe sofferto la fase investigativa. Nessun indizio o dettaglio, infatti, sulle effettive abitazioni degli uomini colpiti dal blitz, fatta eccezione per alcuni covi. «Spesso si trattava di indirizzi fittizi». E a parte l’analisi dei cellulari ritrovati con le perquisizioni? Pedinamenti, appostamenti? «No, solo interventi dopo i fermi», spiega l’assistente capo.
Specie sui contenuti dei telefoni ritrovati. Numerose infatti le conversazioni tramite WhatsApp in cui si allude ai membri della Cosa nera di Ballarò, ma non solo, e a episodi di violenza. «In alcuni messaggi indirizzati a Cisko si fa rifermento ad alcuni tumulti a Bari, mentre in altri ancora si allude ad altri membri della Black Axe presenti a Brescia» riferisce Lombardo. Nella maggior parte di queste conversazioni, comprese quelle di Facebook, i membri dell’associazione criminale utilizzano degli alias o, addirittura, dei nomi di battaglia. Ma su come siano risaliti ad associarli ad ogni singolo membro del gruppo il teste tentenna: «Suppongo che siano stati collegati i profili analizzando gli account social e collegandoli all’utenza di riferimento, ma non ricordo bene». Sembra insomma di assistere, a tratti, all’interrogazione di uno studente impreparato. Poche le risposte sicure riferite oggi al presidente Gulotta, che non manca di bacchettare il testimone. Memorie vaghe e incertezze la fanno da padrone.
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