La zona di Ballarò, in quanto a spaccio e prostituzione, era sotto la lente attenta degli investigatori già da tempo. Ma all’inizio, durante le primissime osservazioni e le prime intercettazioni ambientali, sembra qualcosa di molto diverso, nulla che lasci pensare addirittura a un’organizzazione criminale simile alla mafia siciliana. «Abbiamo iniziato a notare che, tenendo sotto controllo certe bettole del quartiere gestite da nigeriani – racconta in udienza oggi un ispettore di polizia giudiziaria – che le persone che si incontravano e si riunivano erano pressoché sempre le stesse. Sempre gli stessi volti, gli stessi nomi, una vera e propria associazione criminale». È la cosiddetta Cosa nera, quella descritta ai giudici della prima corte d’assise di Palermo dall’ufficiale di polizia giudiziaria, uno dei primi a indagare sul fenomeno. «Sapevamo di attestazioni già a Torino e a Brescia, c’erano tutti i presupposti perché si manifestasse anche qui», spiega.
Inizia quindi un lungo periodo di osservazione e di ascolto segreto. «I membri della Black Axe, questo il nome dell’associazione, camminavano tutti insieme. Non c’era il singolo, che potevi incontrare o beccare a fare qualcosa, la facevano tutti insieme». Le indagini, partite già da alcune segnalazioni del 2012, diventano ancora più serrate e concrete dopo l’aggressione a Doremeka a gennaio 2014 da parte di Austine Johnbull, quello che di lì a poco, una volta arrestato, diventerà il primo importantissimo pentito della Cosa nera trapiantata dalla Nigeria a Ballarò. Condannato lo scorso maggio a due anni e otto mesi in abbreviato per il suo ruolo nell’associazione criminale e ascoltato in aula nelle vesti di imputato per reato connesso, ha raccontato solo pochi mesi fa le brutali sevizie patite da una delle vittime della Black Axe.
«Erano più oppressivi, questo il termine usato da loro stessi più volte, rispetto a criminali di altro genere – racconta il teste -. Se fai parte di questo gruppo ti connota una certa violenza. E poi hanno tutta una loro simbologia molto precisa, magari cambia qualche dettaglio a livello dei colori, ma il simbolo rimane sempre quello. Uno dei primi di cui abbiamo avuto sentore è stato il basco nero, uno dei principali simboli di riconoscimento che utilizzano e che denota la loro appartenenza all’associazione». Ma oltre a cappelli e colori, ci sono anche i numeri. Il 7, ad esempio, è quello che si ripete di più, e che simboleggia l’ascia. L’arma spesso prediletta per le aggressioni o, in alternativa, si usavano delle bottiglie rotte. Anche questa scelta non era casuale, ma altamente connotativa del gruppo. Ma ci sono anche gesti, posizioni e saluti particolari che identificano un appartenente alla Black Axe, conosciuta dal mondo esterno con l’acronimo Npm. Segnali, codici, dettagli che a poco a poco, ascolto dopo ascolto, gli investigatori iniziano a decifrare.
Quattro i gruppi dell’organizzazione criminale operanti a Palermo, ma solo due, a detta del teste, sarebbero stati i principali. E uno di questi è proprio quello di cui fa parte Johnbull. «È stato lui dopo l’arresto a venire da noi per dirci che voleva collaborare, che voleva raccontarci come funzionava – dice – Penso che la questa decisione sia nata dal fatto che fino a quel momento i nigeriani non avessero capito quanto potessero essere perseguiti penalmente per quello che facevano, è una mia supposizione». Per ascoltare il controesame del testimone da parte delle difese si dovrà attendere la prossima udienza, al rientro dalla vacanze natalizie.
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