Bisso Bistrot, fra cucina tipica e integrazione «I migranti qui possono imparare un mestiere»

Nel cuore del centro storico di Palermo c’è un posticino dove mangiare cucina tipica, bere del buon vino e stare in compagnia. Ma a rendere speciale il Bisso Bistrot ai Quattro Canti è molto più di una ricetta ben realizzata. Il segreto del caffè letterario che ha preso il posto dell’ex libreria Dante è forse il suo staff, composto in parte da neo-maggiorenni migranti giunti a Palermo ancora minorenni e completamente soli e che qui hanno la possibilità di imparare un mestiere. A renderlo possibile è il padrone di casa, Dario Bisso, che non è nuovo all’esperienza dei tirocini formativi per giovani migranti. Michael, il cuoco, ha iniziato proprio così: una scommessa iniziata sette anni fa e che lo ha reso oggi il capo della cucina. L’ultimo, arrivato al locale da tre mesi, è il diciannovenne Adic, ospite della comunità Stellaria di Palermo. «La convenienza c’è per entrambe le parti in gioco: da un lato per il ragazzo che si inserisce e impara un mestiere, dall’altro per l’imprenditore che si può letteralmente crescere una persona, ne cura la formazione passo dopo passo e poi la assume», racconta Dario a MeridioNews.

Il vantaggio quindi è proprio quello di formare il personale direttamente dall’interno: «Sta poi alle capacità di ognuno saperne fare una risorsa e non un peso», precisa. Il tirocinio può avere durata differente a seconda della tipologia: alcuni si svolgono nell’arco di tre mesi, altri di cinque e altri ancora di sei, a seconda della mansione che si sceglie. Adic ha scelto la cucina: «Ha cominciato proprio dalla gavetta, dalle cose essenziali come pulire le verdure o il pesce, e poi come procedere con i tagli – dice – piano piano sta imparando». Prima di lui ce ne sono stati altri che hanno affrontato lo stesso percorso: «Nel locale ce n’è già quattro, tutti hanno fatto un tirocinio iniziale e poi alla fine del loro percorso li ho assunti – rivela infatti Dario – Capita anche che qualcuno dopo un paio di anni vada via, perché trova magari un lavoro migliore: c’è stato un ragazzo di origini tunisine che, dopo essersi formato qui da me, è andato in Germania supportato da un cugino che lavorava già lì. Cercano condizioni di vita migliori, è comprensibile».

Dario ha sposato il progetto del Ciai aderendo alla campagna solidale #non6solo. «In pratica inseriamo i ragazzi nel mondo del lavoro ed è molto bello – racconta – Nel frattempo sono sempre seguiti da un team di psicologi e sociologi che li ascoltano e li indirizzano in un percorso lavorativo, in pratica li accompagnano verso l’età adulta». Ma cos’è che spinge a mettersi in gioco in prima persona in progetti come questo? «Per me è una questione culturale, di radici. A motivarti è soprattutto la tua sensibilità, perché questi sono progetti delicati ed è bene che coinvolgano quegli imprenditori diciamo normali, onesti, che non abbiano pregi particolari ma che non abbiano nemmeno secondi fini». Per Dario infatti percorsi di questo tipo corrono il rischio di incappare in imprenditori non sempre corretti e che potrebbero sfruttare occasioni come queste non per formare i ragazzi e un proprio staff futuro, ma per usarli come manodopera e poi mandarli via, «e alla fine del tirocinio arrivederci e grazie».

Che quella dei tirocini formativi per giovani migranti sia una pratica ormai consolidata a Palermo, secondo Dario, è un dato di fatto, ma la pubblicità che se ne fa è ancora troppo poca. «Non so se ci sono ancora dei pregiudizi, di fatto è una realtà che ormai esiste da tempo, io personalmente conosco almeno altri due imprenditori che stanno affrontando lo stesso percorso formativo con giovani migranti – spiega – Funziona e c’è, bisogna prenderne atto. E soprattutto è un’esperienza che mi sento anche di consigliare, anche nell’interesse dei ragazzi a cui vengono trasmesse delle competenze, se non gli si insegna nulla è solo sfruttamento di una forza lavoro e se ne vanno con lo stesso zainetto con cui sono arrivati».

Adic si trova bene e sta imparando molte cose. L’ostacolo più grande, fino ad ora, è stata la lingua: «Facciamo piccoli passi ogni giorno, l’integrazione serve anche a questo – conclude Dario – Nel lavoro è fondamentale capirsi quando si comunica, ma lui impara in fretta. Lavora cinque ore al giorno e spesso vorrebbe trattenersi oltre, ma al momento non è possibile. Quando finirà la formazione ho intenzione di assumerlo: se vorrà, potrà restare con noi».

Silvia Buffa

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