È un «rapporto simbiotico» quello che si crea fra Ninì Bacchi, per gli inquirenti il re delle scommesse online in affari con Cosa nostra, e i gruppi criminali mafiosi. Un rapporto che la recente operazione Game over lascia emergere in tutta la sua assoluta novità rispetto a quello che di solito si registra nell’esperienza giudiziaria tra imprenditori e mafia. Se, di solito, gli imprenditori, anche quando sono collusi, sembrano in qualche modo sottostare alla famiglia mafiosa di turno alla quale si rapportano in condizione di sostanziale sudditanza, Bacchi, di contro, è «il contraente forte», quello insomma che detta le regole, «il regista incontrastato».
«Li ho fatti diventare cristiani, m’avianu a paari cu l’occhi pi’ chianciri», si vanta al telefono. E Cosa nostra, dal canto suo, ringrazia e incassa. Forte anche dell’esperienza nel settore per la precedente militanza in Goldbet, circuito di scommesse online che arriva addirittura a poter comprare mandando a Innsbruck per la proposta di acquisto quello che per gli inquirenti è il promoter per la provincia di Agrigento, Davide Schembri, colpito anche lui dall’operazione. E Bacchi sa fin troppo bene di essere un uomo di successo e sa quanto fa gola ai mafiosi il suo denaro. Perciò, si presta e dirige il gioco. Grazie ai legami coi più potenti capimandamento si assicura le necessarie autorizzazioni di Cosa nostra per l’installazione delle slot e la gestione della rete per le scommesse a distanza.
E a raccontare, nero su bianco, il suo ruolo e il suo personaggio non sono solo intercettazioni e pedinamenti. Ma anche due che di quel mondo di affari illeciti e criminalità sono stati parte attiva. Almeno fino al pentimento. Uno è Vito Galatolo, uomo d’onore della famiglia dell’Acquasanta, dove prende il posto del padre Vincenzo, storico boss. Ricopre, dal 2012, anche il delicato ruolo di capomandamento di Resuttana. È stato affiliato da poco, ma ha dalla sua il peso di un cognome che in quell’ambiente conta ancora molto e l’eredità lasciata dal padre. «È praticamente nato dentro Cosa nostra», dicono di lui gli inquirenti, circostanza questa che gli ha permesso di riferire dettagli anche su vicende che ha addirittura vissuto appena adolescente.
È grazie al suo racconto che gli inquirenti riescono a penetrare nel complesso meccanismo attraverso cui Bacchi avrebbe realizzato una sistematica estromissione di tutti gli altri soggetti economici, anche a loro volta legati a Cosa nostra, proponendosi e diventando l’unico interlocutore delle varie famiglie mafiose. Sarebbe stata questa, forse, la chiave del successo. «Ninì piazzava slot machines con l’accordo delle famiglie mafiose competente per territorio e pagava una certa somma a Cosa nostra a titolo di guadagno per la stessa», racconta ai magistrati nel 2014. Anche se quando Galatolo è ancora parte del giro, la presenza di Bacchi crea non poche perplessità. «Io voglio i siti come dico io e lui, invece, poi i conti non li fa al mese», si lamenta con un picciotto di San Lorenzo, indispettito dal fatto che sia l’imprenditore a dettare le regole e a stabilire le cifre.
L’altro, invece, è Mario Gennaro, membro di spicco della cosca De Stefano-Tegano di Reggio Calabria. L’Ndrangheta diventa il suo pane quotidiano sin dagli anni Novanta, fino al ’99, quando si dà alla macchia per evitare l’arresto e diventa di fatto latitante. Ma l’anno dopo è già di nuovo dietro le sbarre. E in anni più recenti entra nel giro delle scommesse illegali, avvalendosi di società estere di diritto maltese per esercitare abusivamente il gioco e le scommesse per via telematica. È, non a caso, il fondatore e leader del circuito di scommesse B2875, il brand riconducibile per gli inquirenti proprio a Bacchi. Di lui, Gennaro racconta le origini del successo e l’ascesa, svelando soprattutto la consistenza degli interessi che ruotavano attorno agli affari di videopoker e scommesse e la parallela vocazione per questo giro delle organizzazioni criminali.
AGGIORNAMENTO SETTEMBRE 2024: in merito alla posizione di Mario Gennaro si rileva come l’uomo abbia da tempo scontato la pena inflitta e sia al momento un collaboratore di giustizia inserito nel programma speciale di protezione.
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