Assoluzione Mannino, ricorso depositato dalla Procura «Motivazione lacunosa, confusa e priva di argomenti»

«La sentenza impugnata appare percorsa da un singolare furore demolitorio, teso non soltanto all’analisi della posizione dell’imputato, ma sostanzialmente determinato a smantellare la ricostruzione dei fatti prospettati dall’accusa con argomentazioni spesso prive di reale motivazione». Sono dure e precise le parole con cui inizia il ricorso della Procura di Palermo depositato ieri contro le motivazioni della sentenza emessa dalla gup Marina Petruzzella nei confronti dell’ex ministro Calogero Mannino. L’ex Dc, difeso dagli avvocati Marcello Montalbano, Nino Caleca, Grazia Volo e Carlo Federico Grosso, è stato giudicato con rito abbreviato in una tranche a parte del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia che vede imputati a vario titolo uomini delle istituzioni, dell’Arma dei carabinieri e di Cosa nostra, in cui è stato assolto nel novembre 2015 dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato.

Per le motivazioni della sentenza si è dovuto aspettare un anno: solo lo scorso 2 novembre, infatti, è stato possibile leggere le ragioni che hanno spinto la gup a protendere per l’assoluzione dell’ex ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno del governo Andreotti. Il politico è stato assolto «non perché il fatto non sussiste – si legge nell’appello – ma perché l’imputato non lo ha commesso». Le prove messe insieme dai magistrati per dimostrare che l’uomo sia stato l’ispiratore della presunta trattativa fra uomini dello Stato e uomini di Cosa nostra non sono state sufficienti, secondo la giudice.

Nell’atto d’impugnazione della sentenza, firmato dai pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, ma con le firme anche del procuratore Francesco Lo Voi e dell’aggiunto Vittorio Teresi, si parla di «macroscopiche incongruenze» disseminate nelle 500 e più pagine prodotte dalla gup: «La prima si coglie nella palese contraddizione logica tra la motivazione (interamente volta a smantellare la sussistenza del fatto) e la formula assolutoria prescelta», scrivono i magistrati, che lamentano anche il fatto che, malgrado il consistente numero di pagine della motivazione, solo l’ultima ventina di queste riporti delle parti effettivamente valutative, tanto che «la sentenza – si legge – è sistematicamente e completamente permeata del vizio della motivazione apparente», e più avanti ancora: «quello che avrebbe dovuto rappresentare il nucleo esclusivo della motivazione della sentenza, viene invece relegato ad un’asettica, stringata, parziale e arida elencazione di (soltanto) alcuni elementi probatori».

Un documento lunghissimo, dunque, quello prodotto solo un mese e mezzo fa che però risente, a detta degli uomini della Procura, di una «insuperabile contraddittorietà e illogicità intrinseca», che lo rende confuso nelle ricostruzioni dei fatti, lacunoso e sbilanciato. Ma con le sue motivazioni, la gup Petruzzella non tenta solamente di spiegare le ragioni dell’assoluzione di Mannino, ma demolisce – per dirla coi magistrati – l’intero castello accusatorio su cui fondamentalmente si basa il processo tuttora in corso sulla presunta trattativa, descrivendo Massimo Ciancimino come un test inattendibile e il papello come una «grossolana manipolazione».

Ma anche nel caso del figlio di don Vito, secondo i pm, «le conclusioni valutative appaiono fortemente lacunose e in alcuni casi fondate su erronei presupposti di fatto». La giudice avrebbe, secondo loro, ignorato i numerosi «riscontri concreti e affidabili» delle dichiarazioni del pentito, non applicando la cosiddetta «frammentazione ragionata delle valutazioni», per la quale l’accertata falsità di uno specifico fatto narrato non impedisce di valorizzare le ulteriori parti di un racconto più complesso supportate da riscontri precisi. Che Ciancimino junior abbia mentito su alcune cose, insomma, non comporta un’aprioristica perdita di credibilità, per il fatto di aver di contro riferito anche dettagli di fatto riscontrati. «Marchiani errori – scrivono i magistrati – indotti dall’assoluta carenza di analisi dei documenti e delle innumerevoli annotazioni della Polizia scientifica», che hanno inevitabilmente portato la giudice a sottovalutare l’importanza del papello, documento nei confronti del quale mostra un atteggiamento quasi «sprezzante», malgrado l’accertamento scientifico escluda definitivamente l’ipotesi di manomissioni o alterazioni.

Altro errore imputato alla gup è quello di «essersi concentrata su una (non praticabile) analisi psicologica – si legge nell’appello – del personaggio Ciancimino, che viene dipinto come un manipolatore delle capacità professionali degli inquirenti. I pm erano soggiogati dalla preponderante personalità del loro imputato». Mancano, infine, i necessari passaggi logici che spieghino come la giudice sia giunta alla decisione dell’assoluzione: «la grave sottovalutazione di taluni (numerosi) fatti significativi, la totale assenza di valutazione di altri fatti, la lettura e la valutazione armonica di tutti questi elementi di prova – si conclude nell’impugnazione – avrebbero imposto una conclusione diversa del presente processo».

Silvia Buffa

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