«Nella sua attività imprenditoriale si sarebbe avvalso delle tipiche modalità operative dell’associazione mafiosa per scoraggiare la concorrenza, acquistare imprese concorrenti, allontanare i propri soci e assumere il controllo totalitario di società, nonché per gestire i rapporti con i dipendenti». Carmelo Lucchese, secondo quanto emerge nell’inchiesta che portato al sequestro di 13 supermercati, oltre che di mezzi, proprietà e conti correnti, non sarebbe stato un personaggio interno a Cosa nostra, ma di certo avrebbe usato più e più volte l’amicizia con esponenti di alto rango del mandamento di Bagheria – e non solo – per potere costruire ed espandere il suo impero. Tra questi anche Sergio Flamia, uomo d’onore, oggi pentito, che dopo l’arresto del capomandamento Onofrio Morreale, molto vicino a Lucchese, si sarebbe fatto carico di rappresentare e assistere l’imprenditore in ogni tipo di controversia. «Ogni minima cosa veniva da me – racconta Flamia agli investigatori – “Sai, c’ho problemi con questo impiegato”».
Mentre Morreale era in libertà, oltre a garantire l’immunità dal pizzo per le attività all’interno dei confini del mandamento, avrebbe «gestito per conto e in favore di Lucchese i pagamenti relativi alla messa a posto delle attività economiche esercitate a Palermo». Un lavoro di mediazione che avrebbe fruttato tariffe vantaggiose, ma che allo stesso tempo richiedeva una presenza assidua, visti i repentini cambi di vertice nei vari quartieri palermitani dopo le operazioni di polizia che mano a mano avevano cambiato gli equilibri nelle famiglie. Una volta arrestato Morreale, persino a Bagheria qualcuno provò a chiedere il pizzo alle attività di Lucchese. Una questione risolta, per sua stessa ammissione, da Sergio Flamia, che aveva preso il posto di mediatore che fino ad allora era stato del boss.
Nel 2011 Flamia era venuto a conoscenza della richiesta estorsiva ai danni di Lucchese da parte del mafioso Gino Di Salvo, al quale l’uomo d’onore aveva dunque detto: «Zu Gì, ma vidi ca chisti su amici di Nofrio, cu Pinuzzu, che a me mi risulta non hanno mai pagato, picchì ci sta facennu nesciri sti picciuli?». E Flamia era riuscito anche a negoziare con la famiglia della Noce un buon prezzo per le due attività di corso Finocchiaro Aprile: «Seicento e 500 euro al mese, tremila euro per Natale e tremila euro per Pasqua», dichiara agli inquirenti. Un accordo vantaggioso che però dura poco, fino all’operazione Grande Mandamento, che scombina nuovamente le carte in tavola con arresti eccellenti nella consorteria mafiosa di Bagheria. Così, il clan che controlla corso Olivuzza bussa di nuovo alla porta di Lucchese, chiedendo questa volta cinquemila euro per ognuna delle due attività. «Guarda, posso parlare con Gino, vediamo che aiuto ti può dare Gino Mineo (due condanne già scontate per mafia, anziano della famiglia di Bagheria ndr)», risponde Flamia. Che aggiunge: «Ed effettivamente Gino Mineo gliel’ha sistemata lasciando tutto per com’era».
Le intercessioni dell’ora pentito Flamia sarebbero andate avanti fino a poco dopo il 2011. Flamia è uscito da poco dal carcere e vede che nel frattempo Lucchese si è ancora espanso, acquisendo altri supermercati e allargando il suo impero. Ma non ha smesso di cercare l’aiuto dell’amico mafioso per avere uno sconto sulle messe a posto. Stavolta però Flamia risponde picche: «Carmé – racconta di aver detto – io non voglio sapere più niente, tienimi fuori, tu hai le tue amicizie». E dire che Lucchese, a sentire ancora i racconti che Flamia fa ai magistrati, era stato un riferimento fidato, anche quando, durante la latitanza di Bernardo Provenzano, aveva dato la propria disponibilità per ospitare Binnu in uno dei suoi appartamenti. «Che non è mai stato fatto poi ah? Attenzione – dice Flamia – Però la disponibilità l’aveva data».
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