Dalla Lombardia il progetto per il grano sostenibile «Coniugare agricoltura convenzionale e biologica»

In Sicilia il prezzo del pane è lievitato negli scorsi mesi e potrebbe lo farlo a partire da gennaio 2022, già alle porte. C’è chi ha parlato di caro pane, con un riferimento anche ai periodi della guerra, ma chi sa cosa c’è dietro (o meglio, dentro) parla di giusto pane. È il caso dell’agronomo e produttore di grano Angelo Moscarelli che, durante la trasmissione Direttora d’aria, ha spiegato che «il mercato di questo settore ha sempre fatto variazioni talmente piccole da renderlo stabile. Adesso, questo è semplicemente un prezzo giusto dal punto di vista etico per remunerare il lavoro degli agricoltori». Nella terra che è stata il granaio dell’impero romano c’è, però, anche una questione di qualità del grano specie di quello che arriva a bordo di grandi navi, importato spesso dal Canada, e che porta con sé anche muffe, ruggine e un eccesso di glifosato. Così, anche l’Isola potrebbe diventare terreno fertile per una sperimentazione che è partita nella Martesana, ovvero nell’area a nord-est della città di Milano in Lombardia. Qui nasce il progetto Frudur-0 che ha l’obiettivo di mettere a punto un protocollo di coltivazione per una filiera sostenibile del frumento duro made in Italy

«Quello che stiamo cercando di fare – ha spiegato Marta Guarise, che è la coordinatrice tecnica del progetto – è coniugare alti livelli di produzione cerealicola e di sanità delle spighe, tipici dell’agricoltura convenzionale, con l’assenza di residui di prodotti fitosanitari, tipica del biologico per andare incontro alle richieste dei consumatori, della grande distribuzione e dell’Unione europea che chiedono alimenti senza residui di prodotti chimici». Insomma, una sperimentazione che prova a tenere insieme il meglio delle due esperienze agricole per garantire un equilibrio tra quantità e qualità della produzione. Un piano innovativo – finanziato dal programma di Sviluppo rurale (Psr) 2014-2020 della Regione Lombardia – già portato sui campi grazie alla collaborazione del dipartimento di Scienze Agrarie, forestali e alimentari (Disafa) dell’Università di Torino, del distretto agricolo Adda-Martesana (Dama) e di sei aziende locali. 

«Abbiamo già fatto delle prove parcellari in area di terreni della grandezza di dodici metri quadri ciascuno – ha raccontato Guarise – dove abbiamo testato dodici varietà di sementi in commercio di grano duro per capire quali sono quelle più promettenti dal punto di vista della resa». Non solo: la sperimentazione su appezzamenti più grandi ha anche riguardato la messa a confronto di diverse lavorazioni del suolo per testare l’efficacia di varie strategie di coltivazione e di mezzi tecnici (fungicidi, erbicidi e concimi) per individuare quelli più adatti allo scopo. «Tutti i dati raccolti, da quelli sulla granella a quelli della sua trasformazione in semola, saranno oggetto nei prossimi mesi del nostro studio – ha sottolineato la coordinatrice tecnica di Frudur-0 – per arrivare alla stesura del protocollo per la produzione di frumento duro a residuo zero». Se la sperimentazione avrà successo, si potrà procedere poi alla costituzione di una filiera della pasta della Martesana a residuo zero.

Un modello da riadattare poi anche altrove, sulla base delle caratteristiche dei terreni, e per cui la Sicilia potrebbe essere un ottimo banco di prova. «Dal punto di vista qualitativo – ha fatto notare l’agronomo Moscarelli – il grano siciliano ha già i requisiti del protocollo perché, per la vocazione del nostro territorio, è esente da micotossine e da metaboliti secondari di funghi che possono rendere insalubre il prodotto». Eppure, questo non basta. Da un parte c’è la metà dei terreni che resta incolta, dall’altra a deprimere le produzioni c’è «l’assalto dei terreni già coltivati a grano, o che potrebbero esserlo, da parte delle multinazionali del fotovoltaico che non a caso li scelgono per realizzare degli impianti sottraendo però migliaia di ettari all’agricoltura. Questo – ha concluso l’agronomo – potrebbe fare ulteriormente lievitare i prezzi delle materie prime e, quindi, anche dei prodotti lavorati. E poi dobbiamo ricordarci che tra dieci anni non potremo di certo mangiare l’energia». 


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