Con le nuove accuse nei confronti di Giuseppe Graviano, capo mandamento del rione Brancaccio e – insieme al fratello Filippo – fedelissimi di Totò Riina, potrebbe aprirsi una nuova pagina nel racconto della guerra di mafia che sconvolse l’Italia all’indomani degli attentati del 1992 in cui vennero uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Al boss palermitano è stato notificato l’arresto insieme a Rocco Santo Filippone, legato alla potente cosca di ‘ndrangheta dei Piromalli di Gioia Tauro.
L’operazione della polizia di Stato ha individuato i due uomini quali mandanti degli attentati ai danni dei carabinieri compiuti nel 1994 a Reggio Calabria. Una sinergia, quella tra mafia e ‘ndrangheta, che sarebbe confermata dalle confessioni di Giuseppe Calabrò e Consolato Villani (che risultava minorenne all’epoca dei fatti), uomini d’onore calabresi che dopo l’arresto sono divenuti collaboratori di giustizia.
Entrambi hanno ammesso di essere stati gli autori degli attentati ai carabinieri di Reggio Calabria, ma non hanno mai indicato quello che, per inquirenti ed investigatori reggini, è stato il vero movente, ovvero un attacco stragista allo Stato coordinato con Cosa Nostra. Calabrò, tuttavia, ha sostenuto che l’agguato sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria del 18 gennaio 1994, in cui morirono gli appuntati Antonino Fava e Giuseppe Garofalo, fu una reazione per timore che potessero fermarli mentre, a bordo di un’auto, trasportavano armi.
Recentemente, il 27 maggio 2016, Villani, deponendo al processo sulla trattativa Stato-mafia a Palermo ha riferito che aveva chiesto il perché degli agguati ai carabinieri a Calabrò e che questo gli aveva riposto che «stavamo facendo come la banda della Uno bianca: attaccavamo lo Stato». Villani ha anche riferito di essere stato lui, su disposizione di Calabrò, a fare una telefonata in cui si rivendicava l’attentato costato la vita a Fava e Garofalo in cui disse «questo è solo l’inizio».
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