Nicastri… chi? Dopo le quattro audizioni in commissione Antimafia che a oggi rappresentano il momento di maggiore stress per la giunta Musumeci e la maggioranza che la sostiene, mutuare la risposta che anni fa Matteo Renzi diede ai giornalisti parlando di Stefano Fassina sembra la sintesi più efficace. La differenza sta nel fatto che stavolta in ballo non c’è un rimpasto di governo – o meglio, quello c’è ma non disturba il sonno dell’esecutivo – bensì la pesante ombra del re delle rinnovabili. L’uomo a cui la Dia, nel 2013, ha confiscato un patrimonio di oltre un miliardo di euro, con una motivazione precisa: la sua fortuna è figlia dei rapporti con Matteo Messina Denaro, il boss di Castelvetrano, latitante dal ’93 ma la cui presenza, secondo la Dda di Palermo, negli affari imprenditoriali di Cosa nostra è ancora tangibile.
Nel giro di 48 ore, a sedere davanti alla commissione presieduta da Claudio Fava sono stati in ordine il presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè, l’assessore all’Energia Alberto Pierobon, quello alle Attività produttive Mimmo Turano e infine, ieri, il responsabile al Territorio Toto Cordaro. Il nome di ognuno di loro, pur senza nessuna contestazione formale, è finito all’interno dell’inchiesta sul sistema corruttivo che avrebbero ideato Nicastri e Paolo Arata, l’ex parlamentare di Forza Italia poi migrato verso la Lega. Ovvero colui che sarebbe stato l’ultimo dei prestanome dell’imprenditore alcamese. Anche per il profilo particolarmente spendibile: professore – nonostante, come riportato da Il Sole 24 ore, non siano mancati in passato i dubbi sul suo curriculum -, competenze nel campo energetico e una rete di conoscenze che, nell’ottica di Nicastri, sarebbero tornate utile per oliare gli iter per ottenere le autorizzazioni riguardanti i progetti per la costruzione di impianti per la produzione di energia green. Settore su cui Cosa nostra continuerebbe a puntare.
E in effetti Miccichè, Pierobon, Turano e Cordaro vengono indicate da Arata e Manlio Nicastri, il figlio di Vito, come le figure da avvicinare per sollecitare lo sblocco di pratiche apparentemente arenate negli uffici regionali. E questo nonostante, secondo la Dda, gli imprenditori potessero contare sui servigi del dirigente Alberto Tinnirello e del funzionario Giacomo Causarano, entrambi arrestati con l’accusa di corruzione. Tuttavia ognuno degli assessori ha specificato di non essersi mai prestato, al netto di convenevoli, ad andare incontro alle richieste di Arata. C’è chi come Cordaro lo ha definito uno «stalker» per l’insistenza con cui il braccio destro di Nicastri avrebbe tentato di contattarlo per chiedere di sorvolare sulla procedura di valutazione d’impatto ambientale sugli impianti di biogas – dietro cui si sarebbero nascosti dei piccoli inceneritori – da fare a Calatafimi-Segesta e Francofonte e chi, come Pierobon, lo ha paragonato, in occasione della conferenza stampa prima dell’audizione in Antimafia, a una «zecca cavallina». E se Turano, parlando di un incontro con Francesco Arata (figlio di Paolo e con lui arrestato), si è limitato a definirlo un «giovane» per poi specificare come la propria avversione all’impianto di Calatafimi fosse cosa nota anche nella campagna elettorale delle Regionali, Miccichè ha specificato di avere conosciuto l’Arata politico a inizio anni Novanta mentre con quello imprenditore il rapporto sarebbe stato superficiale: «Non capisco molto di queste cose», ha sostenuto il presidente dell’Ars.
Tuttavia i passaggi più delicati si sono registrati quando agli assessori è stato esplicitamente chiesto se sapessero chi fosse il socio in affari, più o meno occulto, di Arata. Sul nome di Nicastri – e su ciò a cui lo stesso rimandi, considerata anche la richiesta di condanna a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa – gli esponenti del governo regionale hanno negato di esserne a conoscenza. A eccezione di Turano, che ha sostenuto di saperlo e di averlo comunicato a Miccichè. «Fu l’unico che mi chiamò e gli dissi: “Vedi che è socio di Nicastri”», ha messo a verbale l’assessore che con Nicastri condivide il luogo di nascita. La versione, tuttavia, è stata smentita dal commissario forzista siciliano che ha bollato come «minchiate» l’ipotesi, per poi specificare di non seguire le cronache giudiziarie.
Coloro invece che non avrebbero avuto alcun aiuto nell’identificare Arata sarebbero stati Cordaro e Pierobon. «Mai nessuno mi ha detto nulla di Nicastri. So che a qualcuno è stato riferito. Evidentemente non è stato ritenuto opportuno riferirlo a me», ha chiosato il primo, prima di mostrare un sms in cui Arata gli faceva presente di essere l’assessore più difficile da contattare in tutta Italia. Per quanto riguarda il responsabile all’Energia, oltre ad avere lamentato di non avere ricevuto avvisaglie sui rapporti tra Arata e Nicastri – «se qualcuno sapeva, avrebbe dovuto avvisarmi» -, si è trovato a fare i conti con i riferimenti incrociati provenienti dai colleghi di governo. Miccichè ha raccontato della volta in cui Arata gli avrebbe chiesto di concordare un incontro con Pierobon, che aveva già conosciuto e di come fosse di casa in assessorato – anche se lo stesso Pierobon ha sottolineato come sia stato sotto la sua gestione che gli accessi negli uffici del dipartimento siano stati regolamentati -, mentre Cordaro ha ammesso di avere ricevuto numerose sollecitazioni da Pierobon, affinché venissero affrontate le pratiche di Arata. Un comportamento che, tuttavia, Cordaro ha spiegato di avere interpretato non come dettato da «un interesse personale ma dal suo approccio alle cose».
Allo stato, dunque, si chiudono qui i chiarimenti che la politica regionale ha deciso di dare su un’inchiesta che tuttavia, con la notizia di un principio di collaborazione di Nicastri con i magistrati, potrebbe riservare ancora novità. Tornando a scuotere le attività del governo Musumeci. Il nome del presidente della Regione, va detto, non è mai citato nelle carte dell’inchiesta, a eccezione di un passaggio in cui Manlio Nicastri, parlando dei fastidi causati ai presunti sponsor politici di Antonello Barbieri per i progetti di Sun Power Sicilia – la società che nel 2013 Nicastri riuscì a riprendersi comprandola dal tribunale tramite un prestanome -fa riferimento al «braccio destro di Musumeci». Senza però spingersi oltre. Intanto Arata e il figlio sono usciti dal carcere per andare ai domiciliari.
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