Arancina, mio piccolo grande Amore Le confessioni di un divoratore seriale

Lo giuro, quest’anno non mi strafogherò più di arancine. È quello che pensiamo tutti al termine di una indigestione apocalittica di queste deliziose palle di riso, che ad una certa età diventano troppe tutte insieme, specie se nelle proporzioni che ogni buon palermitano si sente in dovere di assumere. Non per scelta, ben si intenda: ma perché alla fine l’arancina è una bandiera, un’identità, una Fede, che – al pari di quella calcistica – comunque vada, bene o male, bisogna sempre e poi sempre onorare (a proposito, magari qualcuno un giorno unirà le due cose creandone una col riso colorato al nero di seppia e il ripieno al salmone).

Lo prometto, quest’anno non mi abbufferò più in questa maniera. Anche se c’è da rispettare una tradizione, e – nel caso dei più ortodossi – ciò si traduce in un’astinenza forzata da arancine per 364 giorni perché in fondo – come per tutto ciò che ci piace – se ne usufruissimo ogni volta che possiamo, ne sminuiremmo l’appeal. Poi, però, in appena 1.440 minuti la castità culinaria si trasforma nel suo esatto opposto, un orgiastico e pantagruelico banchetto di una sola e unica portata. E qui nasce la diaspora: chi va a caccia (come per i Pokémon) di tutte le possibili varianti di ogni forma, dimensione e gusto; chi con sdegno si avventa su un democristiano monocolore accarne o abburro. Tutti riaccomunati poi dai sensi di colpa per l’appanzamento.

Sicuramente non ingurgiterò tutte queste arancine. In fondo a Santa Lucia il vero alimento della festa (che poi manco rosso in calendario è, se non nei nostri stomaci) è la cuccìa, ma – per quanto il dolce fatto di grano e ricotta possa essere amato e apprezzato – quasi nessuno ci pensa se non pochi giorni prima, al contrario di quanto fa un vero arancina-addicted, che ai primi freddi inizia un vero e proprio conto alla rovescia dei giorni che mancano all’Evento. Altro che calendario dell’Avvento e corsa ai regali: In questo giorno si soddisfa l’Io affamato, e il gesto più altruistico che si possa fare è andare a comprare (o preparare in casa) le arancine per tutta la famiglia: in fondo cu sparti avi a megghiu parti.

Probabilmente quest’anno farei meglio a non mangiarne così tante. Certo però che bisogna pur tenere alto il nome di una delle specialità culinarie di Palermo, e difendere la città stessa dagli affronti linguistici dei parenti (alla lontana) etnei e dal girgentano scrittore che ne ha diffuso nel Continente la dicitura al maschile. Ma soprattutto dagli stessi nordici che invariabilmente ne storpiano la vocale finale suscitando l’orticaria e l’immancabile correzione da parte di ogni persona verace nata alle falde di Monte Pellegrino, che il discorso venga fuori alla Kalsa, in viale Strasburgo, a Milano, a Pinerolo, o in una cosmopolita città di un altro continente.

Quasi quasi proverò quest’anno a piluccarne qualcuna in meno. Razionalmente so che posso gestirmi, che poi me ne pentirò, che in fondo in fondo nessuno controlla e a nessuno realmente interessa quante ne hai mangiate, che dal 14 dicembre si passa ad altri argomenti e ad altri cibi, anche non con lo stesso fascino. Ma se sei nato e cresciuto in questa città, sai che se non mangi arancine a Santa Lucia è come se ti mancasse qualcosa, un pezzo interiore indefinito, un frammento d’animo, un piccolo tarlo ai confini del cervello che nei concittadini all’estero (a Nord di Ustica, a Sud di Lampedusa, ad est di Favignana, ad Ovest di Messina) si manifesta in una saudade in salsa panormita. E quindi se non ne mangi almeno una (anche se fosse solamente una, sic!) è come se rinnegassi i tuoi fratelli gastronomicamente meno fortunati. Ma in fondo se divori queste rotonde, fritte, calde, dorate prelibatezze fino a non poterne più, lo fai perché vuoi farlo, punto e basta. E lottare contro te stesso a volte è una cosa buona e giusta, ma in alcuni casi è tempo perso. In fondo per smettere c’è sempre l’anno prossimo, o quello dopo ancora!

Massimo Gucciardo

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