Appello trattativa, le verità dell’ex pm Antonio Di Pietro «Su legame mafia-appalti Borsellino mi disse di far presto»

«Il primo che mi disse di fare presto e di chiudere il cerchio fu Paolo Borsellino. In quell’incontro, il giorno del funerale di Falcone, eravamo d’accordo di rivederci per stabilire dei collegamenti d’indagine. Era presumibile che anche soggetti politici e istituzionali del Sud fossero coinvolti, lo avevo ben percepito già da tempo, e ne ebbi pieno riscontro a novembre ’92 su fatti che andrebbero sviscerati. La conferma del collegamento affari-mafia l’ho avuta col riscontro della destinazione della tangente Enimont da Raul Gardini, una provvista da 150miliardi, una gallina dalle uova d’oro, dovevamo trovare i destinari: l’ultimo che ebbi modo di riscontrare fu Salvo Lima, che però incassò attraverso i cct che gli girò Cirino Pomicino, mesi dopo venne ammazzato e Gardini poi si uccise. Si trattava di vedere chi quella parte di tangente in cct l’aveva incassata». Così l’ex pm dell’inchiesta Mani pulite Antonio Di Pietro, citato dalla difesa degli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, in occasione del processo d’appello sulla trattativa fra Stato e mafia.

Un esame, il suo, che ruota soprattutto sul famoso dossier mafia e appalti, e sui colloqui che ebbe con Paolo Borsellino prima e dopo la strage di Capaci. E su eventuali progetti di indagini coordinate sul filone delle ingerenze mafiose e della corruzione politico-amministrativa nella gestione degli appalti. Anche perché in quel dossier comparivano imprese del Nord che erano anche coinvolte nell’inchiesta Mani pulite, che l’ex magistrato stava conducendo. Inchiesta che, all’epoca, lo porta ad avere «colloqui frequenti e approfonditi» con entrambi i magistrati uccisi nel ’92. «I nostri erano rapporti professionali, io non posso dire di essere stato loro amico, li ho frequentati per motivi di lavoro e per tempi e modi limitati», precisa oggi. I primissimi rapporti sono con Giovanni Falcone, che gli dice di puntare molto sulle rogatorie internazionali, «materia per me all’epoca sconosciuta – rivela -. Lui mi fece un po’ da insegnante in questa prima fase, per poter realizzare al meglio queste rogatorie». Che sono importanti perché rappresentano «l’unico modo per ritrovare la provvista». Mani pulite, infatti, poggia su un presupposto nuovo per l’epoca: non indagare su chi prendeva la tangente, non solo almeno, ma su come si formava, a monte, la provvista. E sul tentativo di convincere poi gli imprenditori a rompere il patto tra corrotti e corruttori.

«”Ma se tutto questo si sta scoprendo a Milano, controlla anche gli appalti in Sicilia”, mi diceva Falcone», che all’epoca era dirigente generale degli Affari penali a Roma. Discorsi che, in seguito, affronterà, ma solo fino a un certo punto, soprattutto con Borsellino, che più volte gli aveva detto che i tempi erano strettissimi: «”Dobbiamo fare presto, dobbiamo sbrigarci, dobbiamo andare di corsa“, mi diceva di chiudere il cerchio insomma, “dobbiamo trovare il sistema”. Un imprenditore che collaborò con la procura di Milano mi disse addirittura “Fino al Rubicone ti dico quello che vuoi, oltre il Rubicone non vado…preferisco la galera”». Di Pietro si accorda con Borsellino per incontrarsi e iniziare a coordinare le indagini, che  riguardavano tutto il territorio nazionale. Sono al palazzo di giustizia di Palermo, davanti al feretro di Falcone, ed è proprio lui che prende il discorso con Di Pietro, i due si accordano per incontrarsi di lì a breve. «Con Borsellino parlai poco, ma ho capito che stava andando in quella direzione. Anche se non sapevo dei suoi colloqui con Mutolo e del rapporto del Ros del ’91. Io il bandolo della matassa l’ho ritrovato dopo, all’epoca del suicidio di Gardini». Un uomo che aveva in mano mezza Italia imprenditoriale, secondo l’ex pm.

Ma Borsellino, anche lui, viene ucciso il 19 luglio. «Da quel momento andai avanti per la mia strada da solo, non mi confrontai più con nessuno, ero impaurito, c’era stata una segnalazione del Ros che diceva che anche io come lui dovevo essere ucciso – spiega -. Quindi mi chiusi, continuai da me, all’interno dello stesso pool». Ma l’indagine, nel tempo, si arena. «Sento che non è stata fatta piena luce – dice ancora -. A un certo punto i comitati di servizio e i servizi di sicurezza hanno cercato di fermare le indagini mafia-appalti. Nel ’96 ci fu l’accordo in Parlamento per riprendere tutto questo con la successiva legislatura, ma io sto ancora aspettando». Temi che lui ha potuto affrontare pienamente solo coi due giudici. «”Questa inchiesta che si sta allargando (Mani pulite ndr), quando arriva in Sicilia?” mi diceva soprattutto Falcone, “al Sud bisogna fare i conti col terzo elemento”, mi diceva anche Borsellino. Io conoscevo i primi due, affari e politica. Ma non è che questa evoluzione tangentopoli-mafiopoli l’abbiamo scoperta noi, lo sapevano pure le pietre, noi abbiamo scoperto il meccanismo. Solo che a un certo punto, finita la stagione delle stragi, è arrivata una stagione legislativa che ha fermato questa indagine, piaccia o non piaccia è questa la verità». 

«Ogni giorno si scopriva qualcosa, e c’era questa Sicilia sullo sfondo che rimaneva silente – racconta oggi Di Pietro -. L’inchiesta Mani pulite coinvolgeva totalmente l’apparato politico. Il problema di fondo è: mandanti o beneficiari occulti ci sono stati o no? Chi ha spinto all’epoca sul freno dell’acceleratore per questa fine dell’inchiesta? Ho fatto esposti al Csm, alla procura di Palermo, ai comitati di servizio, a tutti, ma ad oggi resta ancora un punto oscuro se le stragi del ’92 e la fine di Mani pulite abbiano agevolato qualcuno». Intanto, anche dopo la morte di Falcone e di Borsellino, Di Pietro tenta di portare avanti l’inchiesta. Si raggiunge un accordo tra il pool di  magistrati di Milano e il pool di Palermo, «tra Borrelli e Caselli – spiega -, che misero entrambi a disposizione buoni uffici: tra quelli recalcitranti milanesi c’ero io, tra quelli recalcitranti palermitani invece c’era Ingroia. L’accordo puntava sul fatto che io avevo questa capacità di interloquire con gli imprenditori, se fossi riuscito a trovare imprenditori che avessero potuto dirmi qualcosa sulla Sicilia, avrei trasmesso tutto a Palermo. Io gli dicevo “visto che stiamo indagando su di voi e prima o poi scopriremo tutte le provviste, tanto vale che ci dite tutto”. Era un metodo investigativo, io lo rifarei. Ma sono stato processato per questo, e poi prosciolto».

«Sono convinto – continua – che l’indagine Mani pulite è stata fermata nel momento in cui anche quell’inchiesta è arrivata allo stesso punto in fatto di rapporto mafia-appalti. Io sono stato fermato da una delegittimazione gravissima, e non c’è stato accertamento giuridico contro chi se n’è reso responsabile. Sono stato oggetto di dossieraggio, rispetto a fatti su cui stavo indagando, su ordine di alcuni politici che hanno portato alle mie dimissioni. Da lì a poco sarebbe arrivata non solo una grossa indagine nei miei confronti ma anche una richiesta di arresto e io mi dimisi per potermi difendere. Sono stato prosciolto e ho detto che chi ha indagato su di me non poteva indagare, cioè Fabio Salamone, che ho denunciato al Csm, che lo ha solo sanzionato civilmente. Io sono stato ammazzato civilmente, questo è stato il nuovo modo per fermarmi. Non mi sono dimesso per fare politica, come racconta la gente. Mi sono dimesso per essere indagato da libero cittadino. Io ero il personaggio fuori dal sistema, ero rimasto solo io, quindi erano tutti addosso a me».

Silvia Buffa

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