Andra e Tati, dall’incubo di Birkenau a Palermo «Non si dimentica mai, è un continuo tornare lì»

«Ho capito che eravamo ebree quando siamo arrivate a Birkenau. Prima non sapevamo esattamente cosa significasse». È il 28 marzo 1944 quando Tatiana Bucci varca i cancelli di Auschwitz insieme alla sorella Andra. Hanno sei e quattro anni. Da quell’inferno fatto di filo spinato e freddi capannoni usciranno miracolosamente vive, le sole sopravvissute insieme a una cinquantina di altri bambini su oltre duecento condotti nel campo di sterminio nazista. È una storia potentissima, quella che oggi hanno raccontato agli alunni del Maria Adelaide e del Benedetto Croce al Centro di cinematografia dei Cantieri culturali alla Zisa. Un incontro forte, intenso, estremamente toccante. A portarle a Palermo è un’occasione speciale: la proiezione di un prodotto d’animazione che racconta proprio la loro storia. Si intitola La stella di Andra e Tati, diretto da Rosalba Vitellaro e Alessandro Bello, e realizzato dal centro di produzione video e cinematografica palermitano Larcadarte, fiore all’occhiello della città. «Il nostro centro opera qui, a Palermo, e siamo davvero orgogliosi di essere palermitani», sottolinea la regista Vitellaro.

E quello proiettato questa mattina nella sala bianca del Centro di cinematografia è molto più che un semplice cartone animato. «Definirlo tale sarebbe davvero riduttivo – sostengono le sorelle Bucci, particolarmente emozionate dalla visione della pellicola -. È un prodotto che può essere visto anche all’asilo, perché non c’è niente di così violento che possa fare impressione a un bambino. E questo è un lavoro super. Alla primissima proiezione, quella di Torino, non siamo riuscite a parlare, è stato molto forte per noi». La pellicola cuce insieme, in un incastro tanto difficile quanto riuscito, il periodo vissuto dalle due sorelle all’interno del campo di sterminio a una visita di alcuni studenti dei giorni d’oggi in quegli stessi luoghi in cui furono prigioniere. E la violenza subita allora quasi si rispecchia in quella, diversa ma ugualmente preoccupante, dei bulli di oggi. O di chi, di fronte alle tracce di quel massacro inspiegabile, rimane indifferente o incredulo.

«Non ci rendevamo conto di quello che stava succedendo – racconta Tati -. Io avevo sei anni e Andra quattro. Capivamo che lì si moriva. Siamo state forse le uniche bambine che, finito tutto, sono riuscite a ritrovare i propri genitori, è stata una sorpresa che non ci aspettavamo, pensavamo che fossero morti. Ma da quel ricongiungimento in poi in famiglia non abbiamo mai preso questo argomento, non abbiamo mai parlato di quello che era accaduto lì». A salvarle è stato il monito della madre a ripetere sempre i propri nomi, così da non dimenticare la propria identità. «Grazie a mia madre abbiamo avuto un’adolescenza quasi normale, forse anche per il fatto di non aver quasi mai parlato di quell’esperienza. Oggi siamo due donne molto equilibrate e dopo la liberazione, in Inghilterra, siamo rinate – racconta anche Andra -. Ma adesso che sono adulta, che sono genitore anche io, sento la mancanza della memoria di mia madre».

Le due sorelle in quel campo di sterminio ci sono tornate più e più volte. «La prima non è stata poi così difficile: era maggio, faceva caldo, non era la Birkenau che ricordavo, non fece tanto effetto – continua Andra -. Ma tornarci negli anni è stato diverso, soprattutto d’inverno. Malgrado fosse diverso, è stato come tornare indietro. È difficile da spiegare. Sono passati più di 70 anni, all’epoca eravamo delle bambine e non capivamo un sacco di cose, ci siamo adattate presto a tutto, a tutte le mancanze, ma quando non hai una vita normale a quattro e sei anni memorizzi molte più cose per via di uno shock così. Abbiamo una grande memoria, infatti. Non dimentichi mai, non si può dimenticare, è come ritornare indietro. Mia sorella è fortunata perché soffre quando entra nel campo ma quando esce chiude una saracinesca e torna alla sua vita. Per me non è così, mi ci vuole sempre un po’ di tempo per tornare quella di prima, per tornare normale. Normale nel senso di non avere quel pensiero tutti i giorni. Magari poi senti un rumore, un odore, una canzone….Un treno merci.. E torno di nuovo indietro, torno dentro Birkenau».

E anche il loro rapporto con la Germania è stato complesso da recuperare. Ma entrambe ci sono riuscite. «Ho sempre avuto paura dei tedeschi, ma non credo di averli mai odiati – spiega Tati -. Solo dopo l’incontro con un giornalista tedesco che ha dedicato tutta la sua vita per raccontare la storia del piccolo Sergio (bambino deportato insieme alle sorelle Bucci e barbaramente ucciso ad Auschwitz, ndr) ho iniziato a cambiare idea, a capire che anche fra loro c’erano chiaramente delle persone perbene. È così che mi sono riconciliata coi tedeschi. Da quando ho superato questa paura vivo meglio. Tutti noi sopravvissuti vorremo che anche l’Italia facesse i conti col proprio passato. I tedeschi l’hanno fatto, malgrado ci siano ancora qua e là rigurgiti nazisti. Non penso possa esserci un altro olocausto, ma meglio stare attenti».

A inaugurare la proiezione palermitana – che è stata ripetuta nel tardo pomeriggio anche a Brancaccio all’auditorium intitolato al piccolo Di Matteo, dove le sorelle Bucci sono state ospiti del Centro Padre Nostro fondato da padre Puglisi – anche il sindaco Leoluca Orlando, che ha ribadito più volte come «questo cartone animato rappresenti un invito a non stare nella zona grigia e a vergognarci per le leggi razziali italiane. Vergognarsi significa fare memoria. Il senso di questa iniziativa, promossa dalla Rai e dal Miur, è quella di cuntare storie, e non c’è modo migliore di comunicare». Insieme a lui, a presenziare all’evento anche l’assessora alla Scuola Giovanna Marano: «Questo è un modo per suggerire già ai più piccoli uno strumento efficace per memoria, che possa coltivare tutto quel germe che serve per combattere ogni forma di razzismo. Dal punto di vista pedagogico mi sembra che sia studiato alla perfezione. Faremo in modo che le nostre scuole dell’infanzia possano venire qui per fruire tutte quante di questo dono».

Silvia Buffa

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