Amadou, da prigioni libiche a piazze di Ballarò «Sono finalmente palermitano e voglio restare»

«È andato tutto bene, perché oggi sono qui». Non tutti in effetti possono permettersi una frase del genere. Amadou Kandeh, invece, sì. Lui ha 18 anni e viene dal Gambia, dove ha lasciato la madre e i fratelli, quando ha deciso di avventurarsi in un viaggio forse più grande di lui, che lo ha portato ad attraversare sei Stati diversi alla volta della Libia fino a Palermo, dove vive da un anno e mezzo. «Sono arrivato con la barca», la chiama così lui, quando racconta il suo viaggio per mare insieme a 120 sconosciuti. Alle spalle si lascia non pochi conflitti familiari e la morte del padre. Un’avventura, la sua, che inizia molto prima, però, da quel viaggio a bordo di un furgone. Anche qui i compagni di traversata erano quindici estranei che non aveva mai visto prima e con i quali in comune aveva solo la decisione di cambiare vita. Quando finalmente arriva in Libia, l’incubo è appena iniziato.

Resta prigioniero di aguzzini armati in attesa di soldi per tre mesi. E prima di continuare a parlare, Amadou si alza una manica e mostra una cicatrice grossa, spessa, causata da una ferita inferta da un coltello. Neanche il tempo di impressionarsi, di domandare, che l’ha già ricoperta. «Eravamo tutti ammassati, uomini e donne insieme. Ogni mattina venivamo svegliati con dei secchi d’acqua svuotati addosso – racconta – Fino a che non sono scappato. L’uomo della security stava dormendo, erano circa le tre del pomeriggio, me ne sono accorto quando sono uscito fuori dalla baracca per andare a fare la pipì. Non c’ho pensato due volte: la porta era aperta, ho percorso le scale e me ne sono andato, non mi ha visto nessuno. Ho lasciato tutti gli altri là». Si dirige verso la riva e si imbarca alla prima occasione alla volta di un viaggio terribile. «Eravamo in tanti, alcuni piangevano ogni volta che la barca ondeggiava ed entrava acqua, altri pregavano senza sosta».

Dopo quattro giorni in balìa delle onde, senza acqua né cibo, vengono soccorsi. Da quel giorno di oltre un anno fa, Amadou è stato ospite di tre comunità. La prima, dove trascorre i primi mesi, è Casa Marconi, l’ex studentato dell’Ersu in via Monfenera, oggi riconvertito in un hotel. Poi passa da Casa Mimosa e attende che si compia l’iter per ottenere i documenti. Ma ci vogliono altri otto mesi. «Solo ora posso dire di stare bene e di essere palermitano – dice Amadou sorridendo – Palermo all’inizio non mi era piaciuta: non conoscevo nessuno, non avevo amici, non capivo la lingua e avere i documenti sembrava qualcosa di impossibile. Adesso mi trovo da cinque mesi in un’altra comunità, dove sto molto bene». È un palermitano a tutti gli effetti, Amadou, malgrado siano ancora poche le parole del dialetto che riesce a fare sue. A renderlo tale è la sua voglia di conoscere e di appartenere al territorio e alle realtà che più lo rappresentano. Come Ballarò, luogo che frequenta abitualmente e che lo ha portato anche a essere uno dei volontari del Ballarò Buskers, la manifestazione giunta alla seconda edizione e che punta alla riqualificazione del quartiere storico.

Insieme a lui, partecipano alla tre giorni anche altri giovani migranti delle comunità palermitane. «Li abbiamo coinvolti perché intenzionati a renderli soggetti attivi di un processo culturale proprio a Ballarò, in modo da far vedere loro questo quartiere non solo come un luogo di svago in cui bighellonare», spiega Walter Nania, che lavora al Centro Diaconale La Noce e ha personalmente seguito tre ragazzi dell’Istituto Valdese per l’attività di volontariato al festival appena concluso. «La risposta da parte dei ragazzi è stata molto positiva: uno di loro si è dedicato al cibo e ha quindi curato la zona food, mentre gli altri due sono stati all’infopoint a distribuire mappe di Ballarò, volantini e a dare informazioni, anche in inglese, facendo la spola da Casa Professa a piazza Mediterraneo – aggiunge Walter – Il principio di fondo è semplice: far passare il messaggio che anche loro possono essere protagonisti attivi di una manifestazione culturale in un luogo che è vissuto da tantissimi migranti quale Ballarò, ma molto spesso solo per passarci il tempo libero, quando invece possono essere una parte attiva di quel territorio».

Silvia Buffa

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