C’era anche il sindaco Orlando oggi al sit-in di protesta organizzato da Cgil, Cisl e Uil e Ugl per richiamare l’attenzione sulla vertenza Almaviva in concomitanza con il tavolo di oggi al Mise sui call center. L’azienda ieri in Sicindustria ha confermato l’apertura della procedura di mobilità a partire dai primi di settembre e ha annunciato l’aumento degli esuberi di altre 300 persone, fino a raggiungere il numero di 1600 operatori. Intanto oggi c’è stato un incontro tra i sindacati, l’assessora comunale al Lavoro Giovanna Marano e la viceprefetta Maria Baratta che ha ricevuto le istanze dei lavoratori.
«Non vorremmo che i tempi della discussione si dilatino e che a settembre poi ci ritroviamo con dei licenziamenti – dice Massimiliano Fiduccia Slc Cgil – il segnale che devono dare i colleghi di Almaviva Palermo al territorio è quello di affrontare la crisi in modo strutturale senza dimenticarsi però che c’è un’emergenza che va affrontata subito con un tavolo dedicato ad Almaviva. Il sindaco è qui ed è stato sempre presente mentre per quanto riguarda la Regione è da mesi che non batte un colpo. Il nostro appello è comunque rivolto a tutte le istituzioni e a tutti i livelli».
Le ricadute dei licenziamenti di migliaia di persone preoccupa evidentemente anche lo stesso Orlando: «Almaviva è parte di Palermo – afferma – che è la città d’Italia dove c’è il maggior numero di addetti in questo settore, quindi la crisi complessiva di questo ambito colpisce in primo luogo proprio la città con effetti che potrebbero essere devastanti per l’economia. Abbiamo chiesto e ottenuto che si facesse un tavolo nazionale, però chiediamo che abbia come punto di partenza la vertenza palermitana. Chiediamo con molta forza al governo nazionale che a seguito dell’incontro di oggi si faccia un tavolo nazionale su Palermo». E sulle lamentele dei sindacati e dei lavoratori sull’assenza di segnali da parte della Regione il sindaco aggiunge: «Mi auguro che anche il governo regionale si associ a questa nostra richiesta. Intanto ritengo opportuno che il Consiglio comunale adotti un ordine del giorno che faccia di questa vertenza una priorità per questa città».
«Sono un lavoratore Almaviva dal 2001 e io e mia moglie siamo colleghi – spiega Giancarlo Mancuso -Siamo due part time: io a sei ore e mia moglie a quattro. In due non riusciamo però ad avere uno stipendio decente. Abbiamo un bambino di sette anni e un mutuo da pagare. Ho quasi cinquant’anni e se chiude Almaviva non so proprio cosa fare. Il sistema dei call center avrebbe bisogno regole certe: se un lavoratore italiano costa 700 euro e un rumeno me ne costa 300 è chiaro che l’imprenditore lo assume in Romania, è la legge del mercato. Bisogna intervenire su aspetti come questo altrimenti non so come finiremo. Alla mia età non sarà facile ricominciare da zero, per fare cosa? Per portare pizze a domicilio?». Gli fa eco la moglie Maria Lo Re: «Dobbiamo contare solamente su noi stessi e su quello che al momento abbiamo: in due mettiamo insieme uno stipendio, figuriamoci se ci venisse anche a mancare».
Almaviva ha comunicato ai sindacati i dati economici relativi al primo semestre della sede di Palermo, che evidenziano una perdita di 5,7 milioni di euro. Inoltre, l’azienda ha informato la delegazione sindacale che, tranne alcuni aumenti temporanei che riguarderanno esclusivamente i mesi di luglio e agosto, i committenti non hanno proposto nessun incremento di volumi utile a consolidare l’occupazione nel sito palermitano. In prospettiva, è stato annunciato un ulteriore calo dei volumi da settembre in poi. «Siamo in regime di ammortizzatori sociali da tempo, alcuni da più sette anni – dice Salvatore Seggio Rsu Fistel Cisl Almaviva – stiamo a casa in media dagli otto ai dieci giorni al mese e la situazione è critica. Oggi è una giornata importante e noi vogliamo fare sentire la nostra voce perché la nostra vertenza non può essere dimenticata e perché Palermo non si può permettere di perdere 2.800 lavoratori. Al Mise è in corso un tavolo tra governo e sindacati: ci troviamo in difficoltà non perché manca il lavoro ma perché il lavoro va all’estero e non è possibile giocare con le nostre vite».
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