«Non mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Parte così l’esame di Carmelo Petralia, oggi procuratore aggiunto a Catania, all’epoca delle stragi applicato alla procura di Caltanissetta. Sentito oggi nell’aula bunker nissena nell’ambito del processo a carico dei tre ex funzionari del gruppo Falcone-Borsellino Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di calunnia aggravata, viene ascoltato nelle vesti di teste indagato di reato connesso. Il magistrato, infatti, è attualmente indagato insieme alla collega Annamaria Palma (oggi avvocata generale a Palermo), entrambi per calunnia aggravata anche loro, dalla procura di Messina. «Non ho fatto parte della procura di Caltanissetta come magistrato della procura. Da giugno ’92 fino a febbraio del ’93 grosso modo sono stato applicato dal Csm, successivamente, ho preso servizio alla Dna, siamo all’incirca all’11 febbraio ’93. Circa un mese dopo con provvedimento del procuratore nazionale antimafia sono stato di nuovo applicato alla procura di Caltanissetta, non era nemmeno a tempo pieno, ma per alcuni giorni della settimana, un periodo che veniva rinnovato e si esplicava anche con modalità diverse a seconda del servizio e dipendevano anche dalle particolari esigenze legate alle attività che svolgeva la procura», spiega.
«Sicuramente c’è stata una mia presenza costante – torna a dire -, con funzioni di sostituto procuratore, presso la procura di Caltanissetta, ma avevo una doppia dipendenza, c’era anche quella presso la Dna». Petralia si occupa di via D’Amelio fino al ’98, anno durante il quale chiede, poi, un periodo di pausa, per via di «un mio personale momento di stanchezza». «Quando arrivo a Caltanissetta, per quello che ricordo, la procura era in condizioni assolutamente inadeguate, non per la qualità dei magistrati, ma per il suo numero – dice -, pochi per gestire le indagini su una strage come quella di via D’Amelio. Io sono stato applicato insieme ai colleghi Giordano e Vaccara, con lo stesso provvedimento del Csm». Diversi magistrati, quindi, vengono applicati per aiutare la procura nissena in quelle delicate indagini. «Veniamo applicati alla procura, non per il singolo processo – specifica Petralia -. Iniziamo a lavorare alla strage di Capaci circa 50 giorni dopo quella di via D’Amelio. Contemporaneamente ci siamo occupati anche di altre indagini. Per la strage di via D’Amelio nell’immediato c’è una partecipazione all’indagine da parte di tutti i magistrati della Dda. Ben presto l’interlocutore principale, sotto al profilo investigativo, fu la squadra mobile di Palermo, sia per Capaci che, dopo, per via D’Amelio – spiega ancora -. Ma anche carabinieri e Dia avevano un’interlocuzione costante con noi. C’è stato un travaso di conoscenze e informazioni».
Solo in seguito viene costituito il gruppo investigativo Falcone-Borsellino, «che aveva una sua fisionomia istituzionale, c’era il dottor Bo, il dottor La Barbera, che nel corso degli anni diventeranno degli interlocutori più assidui, anche se La Barbera poi viene nominato questore di Palermo e il suo ruolo va poi scemando nel tempo – prosegue Petralia -. Interlocutori fondamentali rimasero quindi il dottor Bo e gli altri funzionari del gruppo investigativo». E il Sisde? A dare un mano c’erano anche i servizi segreti? «Tutto il mondo è stato scosso dalle due stragi, c’è stato un concorso di contributi che era incredibile – dice subito Petralia -. C’erano dei momenti in cui me ne volevo pure scappare dalla stanza di Tinebra, perché un giorno c’era l’Fbi, un altro diversi organi investigativi gemelli della Dia di altri Paesi. In tutto questo contesto c’è stata anche la presenza di appartenenti al Sisde – ammette -, presenza che per me si concentra in una venuta di un gruppo di funzionari, uno dei quali lo ricordo perfettamente perché lo vidi per la prima volta, aveva un aspetto che colpiva, poi poco tempo dopo seppi essere stato arrestato, parlo del dottore Contrada. Se ci fossero altri appartenenti al Sisde mi viene difficile dirlo».
«Sicuramente però – torna a dire – ricordo che io partecipai, a Caltanissetta, a un pranzo con colleghi e altre persone, all’hotel San Michele, che io colloco a dicembre, perché ricordo che poco dopo fu arrestato Contrada. Mi invitò Tinebra e mi pareva scortese rifiutare. A questo pranzo c’era questa persona che identificai poi nel dottore Contrada. Nome che non mi era ignoto, perché nelle prime indagini su via D’Amelio si erano acquisite testimonianze di collaboratori che riferivano della diffidenza che Borsellino nutriva verso Contrada». Ma chi teneva i rapporti con l’ex agente dei Servizi segreti? «Innanzitutto il capo dell’ufficio, quindi Tinebra. Non posso dire che avessero rapporti diretti, ma se viene un funzionario ai vertici dell’apparato di sicurezza dello Stato, il suo primo immediato contatto è col procuratore capo – spiega -. Con me in quel contesto c’avrà parlato una o due volte, poi l’ho interrogato successivamente». Petralia, oggi, non sa inquadrare con esattezza in cosa sarebbe consistita questa interlocuzione tra l’ufficio della procura nissena e il Sisde. «Tra i contributi che da moltissime parti venivano offerti, vi fu anche un contributo secondo me sostanzialmente verbale, perché poi non ci fu altro, almeno di pervenuto a me, da parte del Sisde. In cosa si sia sostanziato e quanto sia durato non so dirlo, non solo perché non poteva esserci in termini istituzionali ma contemporaneamente perché non si verifica neanche di fatto, non avevamo diretti contatti, se ci sono stati col capo dell’ufficio non posso dire niente a riguardo».
Esiste però una nota dell’ottobre ’92 sul vissuto di Scarantino e le sue parentele con la famiglia mafiosa di Resuttana, sulla quale però Petralia non ha alcuna certezza, «dovrebbe essere stato un qualcosa acquisito come informazione, come dato di cui si parlava, non posso confermarlo – dice ancora -. Il rapporto col Sisde, per quello che mi consta, da parte dei magistrati, e mi ci metto anche io insieme ai colleghi, non c’era, mi permetterei di escluderlo. Se questo rapporto c’è stato, secondo anche i dati estratti dall’agenda di Contrada, è stato col procuratore capo e rientra anche nella norma, mi sarei seccato se ci fosse stato un contatto diretto con me o con i sostituti. Diventa disarmonica la cosa se parliamo di apporto investigativo alle indagini». E ammette di non aver saputo, all’epoca, che Palermo stesse investigando su Contrada. «A me il suo nome, prima ancora di vederlo, mi evocava qualcosa di sinistro perché avevo memoria di quelle acquisizioni recenti su un rapporto di scarsa stima e fiducia nei confronti di Contrada». Tuttavia, di queste sue perplessità sulla figura dell’ex 007 non parlerà con nessuno, neppure con Tinebra. «L’esistenza dei servizi di informazione è un dato che tutti conosciamo, in qualche modo la subiamo un pochino. All’indomani delle due stragi io, i colleghi e qualche altro ben informato ci siamo chiesti “ma dov’è il Sisde?”, e ancora “possibile non abbiano messo in moto nessun allarme di prevenzione?” – rivela -, è la stessa cosa che probabilmente gli americani si sono chiesti dopo l’11 settembre, dove fosse la Cia».
Intanto, nei suoi ricordi, la primissima attività d’indagine su via D’Amelio parte subito, la stessa sera della strage, da luogo dell’attentato. «C’è un profluvio di informazioni che arriva dalle fonti più varie. Arrivavano anche informazioni anonime», racconta. Le sue prime attività riguardano gli interrogatori con Salvatore Candura, dove Petralia avrebbe il suo primo contatto con Contrada, anche lui presente. Dieci giorni dopo l’interrogatorio del 3 ottobre ’92, viene prodotta un’annotazione della questura di Palermo, con data 13 ottobre ’92 e indirizzata alla procura di Caltanissetta, che tra gli allegati al numero sette ha una «lettera manoscritta di pugno da Candura» data alla squadra mobile riguardo la sua confessione, lettera datata appunto «Mantova 3 ottobre ’92, in fede Candura Salvatore», che sostanzialmente ripercorre quanto detto poi nell’interrogatorio stesso. Ma agli atti di quell’interrogatorio non c’è questo manoscritto. «Se non se ne fa cenno, evidentemente non sarà stata consegnata questa lettera – dice Petralia -. Io l’esistenza di documenti in mano a Candura in quella circostanza onestamente non la ricordo e sarei propenso a escluderla, perché se avesse avuto appunti o avesse chiesto di consegnare una lettera ne avrei dato atto nel verbale». In quel manoscritto, alla fine, Candura mette anche una planimetria, su cui indica lo stato dei luoghi legati alla strage, indica per esempio dove sarebbe stata parcheggiata la 126 usata per l’attentato. Ma il magistrato oggi non ricorda se, all’epoca, furono fatti accertamenti anche su questo aspetto.
«Se avessi saputo dei colloqui investigativi a Candura, autorizzati dall’autorità giudiziaria di Palermo, mi sarei aspettato di averne un ragguaglio, io non lo sapevo. Tutto ciò mi sfugge – prosegue Petralia -. I soggetti in questione, sia Candura che Valenti, erano da film Mary per sempre, erano obiettivamente complessi nel senso difficili da portare nelle loro dichiarazioni su un livello di credibilità e sostenibilità processuale, soggetti difficili da sentire e da cui trarre utili informazioni. Ma dobbiamo essere pragmatici e se il dato che forniscono può essere utilizzabile e in quel momento non ci sono altri elementi, è una pista che è obbligatorio seguire. Oggi – spiega – è relativamente facile cogliere le tante criticità che ci sono state in questa indagine, ma in quel momento c’erano i poliziotti che portavano al pubblico ministero una pista, che aveva delle suscettibilità di sviluppo importante, constatavo che loro ci credevano e non facevano trasparire alcunché, non c’erano le condizioni perché io potessi sospettare una malafede da parte loro». Non interroga solo Candura, però. Dopo di lui, tocca anche ad Andriotta, «un altro soggetto da prendere con le molle, ma era un dato di cui si disponeva in quel momento, quindi su quello bisognava lavorare».
Risulta, nel suo caso, un interrogatorio del 16 settembre ’94 in presenza della dottoressa Palma e del dottor Bo, in cui Andriotta annuncia solo che avrebbe fatto successivamente dichiarazioni. E poi un altro del 28 ottobre ’94, dove appunto il collaboratore fa le dichiarazioni che aveva anticipato. «Ho memoria di averlo sentito a Paliano, le informazioni fino ad allora acquisite necessitavano di tentativi di verifica, caliamoci sempre nella situazione di quel preciso momento, per cavarne di più e dove possibile una conferma – spiega -. Non so di altri colloqui investigativi, non li autorizzavo io e non avevo neanche la materiale possibilità di avere contezza dei colloqui investigativi che venivano eseguiti. Mi meraviglia questa cosa, stava già collaborando, già parlava con la procura di Caltanissetta». Il magistrato sembra, oggi, stupirsi molto anche dei numerosi colloqui investigativi avvenuti a Pianosa con Scarantino. Alla lettura delle date di quegli incontri, da parte del pm Luciani, lui risponde secco: «Assolutamente nessuna mia contezza di tutto ciò. Questa tranche dell’indagine è una tranche in cui la mia partecipazione fu limitatissima, non lo dico per esimermi da responsabilità, eventuali errori o peggio ancora, all’epoca le redini dell’indagine erano nelle mani della dottoressa Boccassini, che godeva della fiducia del procuratore capo e un rapporto di collaborazione strettissima con La Barbera».
«Io non ho conoscenza di colloqui investigativi ulteriori – torna a dire -, li sto apprendendo oggi qui, di altri ne ho saputo leggendo la sentenza del Borsellino quater. So che, in generale, vi potessero essere degli stimoli alla collaborazione o dei tentativi di acquisire elementi investigativi per indagini importanti attraverso lo strumento del colloquio investigativo, è una cosa nota, ma non ho contezza di nessuno di questi colloqui investigativi – ripete -. Sono colloqui di cui sto sapendo oggi, che lascia intendere ci fosse una certa pressione sul soggetto, e chiedo si presti attenzione a questo termine che sto usando, che appariva come un soggetto che potesse intraprendere un percorso collaborativo. La notizia della sua collaborazione per me, infatti, non è stato un fulmine a ciel sereno. Io ero a Roma, mi chiamò Tinebra per informarmi e dirmi di organizzarmi per andare a Pianosa, perché “pare che Scarantino si sia sbloccato“, disse una cosa del genere, frasi usuali. Raggiunsi quindi Pianosa, dove trovai anche la dottoressa Boccassini e il dottor La Barbera, sono stato ragguagliato da loro. La cosa di cui mi sono stupito io per primo, leggendo le motivazione del quater, è proprio questa circostanza dei colloqui successivi, per me è stata una conoscenza dell’oggi».
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