«Quando sento parlare di un uomo come il generale Mario Mori provo rispetto e ammirazione». E poi ancora: «Ha lo stesso sguardo che immagino avessero Falcone e Borsellino». A parlare è un ragazzo di 18 anni. Non viene mai inquadrato in volto, la sua voce è accompagnata dal tratto di una matita che disegna un volto e ritorna più volte nel documentario Generale Mori – Un’Italia a testa alta, del regista Ambrogio Crespi. Il lavoro verrà proiettato mercoledì all’interno di Palazzo dei Normanni, la sede dell’Assemblea regionale siciliana. Ad annunciarlo, ieri mattina, è stato l’assessore ai Beni culturali Vittorio Sgarbi. La scelta ha suscitato critiche sia dall’opposzione, con il Movimento 5 stelle che ha l’ha definita «una vergogna», che da esponenti che sostengono la maggioranza, come l’esponente di Diventerà bellissima Fabio Granata, che ha attaccato parlando di «disonore per il parlamento».
Al centro della questione c’è un fatto preciso. Il protagonista del doc, l’ex comandante del Ros e direttore del Sisde, è imputato nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, con la pesante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e violenza o minaccia a corpo politico dello Stato. Il generale è accusato di avere trattato, per conto delle istituzioni, le condizioni per cui Cosa nostra avrebbe accettato di interrompere le stragi. È l’epoca dei massacri di Capaci e via d’Amelio, delle uccisioni plateali di chi aveva deciso di contrastare frontalmente la criminalità organizzata siciliana. Tuttavia, nell’ora o poco più di documentario, non si fa mai menzione del processo. Mori è intervistato dal giornalista Giovanni Negri. Le domande riguardano diversi temi, toccano molti degli accadimenti che hanno segnato la storia italiana degli ultimi cinquant’anni. Decenni che, in più di un’occasione, hanno visto Mori protagonista nelle vesti di rappresentante delle forze dell’ordine. «Si dice che lei sia uno degli uomini più potenti d’Italia», chiede il giornalista. E Mori risponde: «Non ho mai concepito questo modo di sviluppare la mia professione». A intervenire nelle riprese sono magistrati come Giancarlo Capaldo o ex brigatisti come Valerio Morucci. Dalle parole di ognuno viene fuori il ritratto di un uomo capace di farsi rispettare da estimatori e nemici, valido a tutto tondo. Il documentario sembra un’apologia di un uomo che, dal canto suo, condisce ogni pensiero di sobrietà. Come quando ricorda uno degli insegnamenti ricevuti dalla madre, quando la carriera nell’Arma non era ancora iniziata: «Mi disse che si può essere brave o cattive persone sia che sei carabiniere che anarchico», ricorda Mori.
All’interno del documentario trova chiaramente spazio la mafia. Mori la presenta così: «È un aspetto della cultura di quei popoli che si è tramandato fino a oggi. Deve essere affrontata con il rispetto che si deve a una cultura, seppure criminale, che affonda le radici nella società di cui è emanazione». Messo da parte l’aspetto antropologico, si parla anche di impegno concreto. Di arresti e indagini. E in fondo anche di processi che lo hanno visto tra i banchi degli imputati. In realtà ne viene menzionato uno, seppure indirettamente: è quello nato dall’inchiesta sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano, dove Mori è stato assolto in via definitiva. Un processo che Capaldo definisce un «martirio». Non solo per il generale ma «per tutto il Paese». Nessuna parola, invece, sul giudizio attualmente in corso al Tribunale di Palermo.
A spiegare il perché a MeridioNews è Giuseppe De Donno, sceneggiatore del documentario ma soprattutto ex braccio destro di Mori, e con lui imputato al processo Trattativa. «Sarebbe stato assolutamente inopportuno entrare nei temi del processo, poteva sembrare che lo avevamo fatto per creare discussioni con la Procura di Palermo, mentre questo lavoro non ha nessun intento politico, è una cosa molto tranquilla», commenta De Donno, che davanti alle telecamere assicura che, quando fu arrestato Totò Riina, gli furono sequestrati tutti i pizzini che portava con sé mentre nega che l’appartamento di via Bernini potesse essere il covo del boss. Sulle polemiche scaturite dall’annuncio di Sgarbi, De Donno non si sbilancia: «È stato l’assessore Sgarbi a invitarci e noi abbiamo accettato – continua -. Inopportunità per via del processo? La Regione avrà fatto le sue valutazioni e comunque questo documentario racconta la vita di tanti carabinieri. Chiaramente è fatto da chi ritiene che il generale Mori sia una persona per bene. Si potrebbe proiettare nelle scuole, racconta un’Italia buona. Poi è chiaro che se uno pensa che il generale è la persona che ha commesso tutte le nefandezze di cui è accusato…».
Chi va oltre l’aspetto filmico – «non l’ho visto, sarà di certo bello» – e sfrutta l’occasione per lanciare un preciso attacco è invece proprio Sgarbi. «Perché ho deciso di farlo vedere all’Ars? Mori e DeDonno sono due eroi – dichiara l’assessore a MeridioNews -. Mentre Di Matteo è stato protagonista di un’indegna requisitoria accusando due presidenti della Repubblica. Chieda scusa a Scalfaro e Napolitano». Il critico d’arte, che nelle settimane passate era già stato al centro delle critiche per altre esternazioni sul magistrato palermitano, fa riferimento anche al deputato del M5s Giancarlo Cancelleri. I pentastellati a dicembre avevano chiesto le dimissioni dell’assessore: «Non capisco perché dobbiamo essere intimiditi dal signor Cancelleri – prosegue Sgarbi -. Se Mori è indegno di stare al parlamento siciliano, lo è anche chi è rappresentante di un partito coinvolto nel caso firme false». La difesa dell’assessore fa poi riferimento a un fatto: il documentario sarebbe già stato proiettato alla Camera dei Deputati. «Se è stato fatto vedere lì, non vedo perché non lo si può fare all’Ars», conclude Sgarbi. Dall’entourage del regista di Generale Mori – Un’Italia a testa alta MeridioNews ha però appreso che l’unica proiezione finora si è tenuta a piazza Montecitorio, ma non dentro il palazzo parlamentare. Il doc, infatti, è stato presentato in un hotel, durante un evento organizzato dal quotidiano Il Tempo.
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