Cinquanta minuti. Tanto è durato l’esame di Roberto Barbagallo davanti ai giudici del tribunale di Catania, nel processo che lo vede imputato per induzione indebita a promettere utilità. L’ex sindaco di Acireale è comparso davanti alla terza sezione penale, presieduta da Rosa Alba Maria Recupido, una settimana fa. Un’udienza in cui Barbagallo ha ripercorso le vicende che, a febbraio di due anni fa, misero fine in anticipo alla sua esperienza amministrativa con l’arresto nel blitz Sibilla, che coinvolse dirigenti comunali, funzionari, professionisti e imprenditori.
L’ex primo cittadino, da anni ormai fuori dalla scena politica acese, ha risposto alle domande poste dalla giudice e dai legali, gli avvocati Enzo Mellia e Piero Continella. L’accusa, invece, rappresentata dal pm Fabio Regolo, ha scelto di non chiedere nulla. Al centro dell’attenzione, come prevedibile, la questione riguardante le presunte pressioni che Barbagallo avrebbe fatto a due venditori ambulanti, anche loro a processo, con l’intento di ottenere da loro sostegno elettorale. Voti che, secondo la procura, sarebbero dovuti andare al deputato Nicola D’Agostino. Tale collegamento nasceva da due elementi: il legame che intercorreva tra i due e il fatto che D’Agostino (non indagato) da lì a poche settimane – era l’autunno 2017 – avrebbe corso per la rielezione all’Ars.
«M’aggiuva na cosa elettorale». La frase pronunciata da Barbagallo all’interno della propria stanza e rivolta al luogotenente della polizia municipale Nicolò Urso, anche lui tra gli imputati, rappresenta uno dei pilastri su cui poggia l’impianto accusatorio. L’ex sindaco, tuttavia, ha ribadito la propria versione: il riferimento alle elezioni non era rivolto alle imminenti Regionali, quanto a quelle che, nel 2014, lo avevano visto vincitore al ballottaggio. Parlando con il vigile urbano, Barbagallo avrebbe ricordato a quest’ultimo che quello dei controlli nei confronti del settore del commercio ambulante rientrava tra i punti inseriti nel proprio programma elettorale.
Ci sarebbe invece un errore di interpretazione e trascrizione all’origine della frase «abbruciamo i catti (le carte, ndr)», pronunciata da un parente dei Principato. Per la procura, l’espressione sarebbe indicativa del rapporto che sarebbe intercorso tra gli ambulanti e Barbagallo in merito alla disponibilità a regolarizzare qualsiasi criticità a livello amministrativo, anche a costo di bruciare documenti. Per la difesa dell’ex primo cittadino, invece, l’intercettazione andrebbe tradotta in italiano come «bruciamo le tappe» e sarebbe da inserire in un contesto del tutto lecito. Nel corso della propria deposizione, Barbagallo ha fatto leva anche sulla mole delle telefonate intercettate dalla guardia di finanza, i cui contenuti non avrebbero mai rivelato nulla di anomalo. Il processo riprenderà nelle prime settimane del 2021.
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