«Non solo non è possibile ribaltare con valutazione rafforzata, al di là cioè di ogni ragionevole dubbio, la sentenza di primo grado trasformandola in condanna. Ma anzi, in questa sede è stata ulteriormente acclarata l’assoluta estraneità dell’imputato a tutte le condotte materiali contestategli». Scrive così la giudice della prima sezione della corte d’appello di Palermo Adriana Piras, nelle 1149 pagine con cui motiva la sentenza di secondo grado emessa lo scorso luglio con cui ha assolto l’ex ministro della Dc Calogero Mannino. L’onorevole doveva rispondere di minaccia a corpo politico dello Stato in una tranche celebrata con rito abbreviato del procedimento sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Accusa per la quale già in primo grado Mannino era stato assolto «per non aver commesso il fatto». Per lui la procura generale aveva chiesto nove anni, ricalcando la richiesta fatta in primo grado, per essere stato – secondo la ricostruzione dell’accusa – uno dei principali promotori di quel dialogo ipotizzato tra pezzi collusi delle istituzioni e i boss di Cosa nostra per porre un freno definitivo alla stagione delle stragi che ha insanguinato l’Italia tra il 1992 e il 1993.
Il processo di secondo grado a carico di uno degli uomini forti della Dc in Sicilia era cominciato il 10 maggio 2017 davanti ai giudici della prima sezione della corte d’appello di Palermo. Due anni di udienze, con una riapertura dell’istruttoria dibattimentale in cui, tra gli altri, era stato risentito anche il pentito Giovanni Brusca. Nella tesi della procura generale, quello di Mannino sarebbe stato uno dei nomi nella lista dei nemici che Cosa nostra aveva deciso di eliminare per «saldare i conti» con chi non aveva mantenuto i patti. Un nome, tra l’altro, che grazie ai suoi contatti con gli ufficiali del Ros, avrebbe avviato una sorta di trattativa con le cosche per salvarsi la vita. Una tesi da lui sempre ritenuta «priva di ogni fondamento». E smontata del tutto anche dall’ultima sentenza. Le cui motivazioni si articolano attraverso approfonditi e dettagliatissimi paragrafi. Partendo dall’omicidio di Salvo Lima al maxi processo e alla legislazione antimafia del ’91, fino alle minacce rivolte all’onorevole e alla preparazione dell’attentato contro di lui. E poi la sua storia politica e i suoi timori, l’omicidio di Riccardo Guazzelli e il rapporto Mannino-Subranni-Contrada. Un capitolo delle oltre mille pagine della giudice Piras è poi dedicato alle indagini su mafia-appalti, un altro ancora invece sulle lettere dell’anonimo Corvo 2, e ancora le dichiarazioni dei collaboratori, i processi, le audizioni in Commissione antimafia. Fino alla conferma dell’assoluzione già decisa in primo grado.
«La tesi accusatoria che vuole Calogero Mannino come input, garante e veicolatore alle autorità statali (al Di Maggio, in particolare) della minaccia contenuta nella trattativa, cade in via definitiva – scrive la giudice -. Del resto, se pure il concorso morale del Mannino si spinga nel capo d’accusa anche alle attività contestate a terzi e successive a dette pressioni, nella requisitoria dei pm appellanti, che vogliono la consumazione del reato non oltre quelle pressioni – non oltre cioè la fine dell’estate-autunno del 1993 -, nelle conclusioni dei pg, né soprattutto ulteriori elementi in atti, soprattutto dal punto di vista logico, giustificano l’attribuzione a Mannino di condotte ultronee a quelle contestate già ritenute da questa corte insussistenti nella loro materialità. È pacifico che la reazione violenta decisa da Totò Riina, all’azione posta progressivamente in essere dallo Stato contro Cosa nostra mediante la legislazione antimafia del 1991 e le gravi condanne inflitte all’esito del primo maxi processo, confermate dalla Cassazione il 30 gennaio ‘92, fu deliberata dal capo corleonese in prossimità della suddetta decisione, alla fine del ‘91, in due distinte riunioni – quella provinciale e quella regionale della Cupola di Cosa nostra -, dunque almeno sei mesi prima del contatto intercorso tra Mori, De Donno e Vito Ciancimino, e con evidenti finalità non ricattatorie, ma di vendetta reattiva: contro gli amici che avevano tradito (Lima), contro i magistrati che avevano contribuito alla lotta contro la mafia, decapitando in grande moltitudine capi e soldati con la definitività della sentenza del primo maxi processo, nonché contro altri soggetti istituzionali che si erano battuti contro Cosa nostra sul fronte politico, amministrativo, legislativo, tra cui non si può escludere che rientrasse anche il ministro Mannino».
La strategia avviata da Cosa nostra a partire dall’omicidio Lima e proseguita con le stragi di Capaci e via D’Amelio, a detta della giudice, «non era certamente quella finalizzata a ottenere dallo Stato concessioni o a indurlo a trattare». Ipotesi in parte fissata anche nella sentenza della corte d’assise di Firenze del ’98, che ha escluso il vincolo della continuazione tra gli omicidi del’92 e gli attentati a Firenze e Roma del ’93-‘94. «In tale contesto – prosegue la giudice più avanti – non è stato affatto dimostrato che Mannino fosse finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte e indimostrate promesse non mantenute, addirittura quella del buon esito del primo maxi processo. Ma anzi al contrario è piuttosto emerso (…) che costui fosse una vittima designata della mafia proprio a causa della sua specificazione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del ‘91». Del resto, seguendo il ragionamento della corte d’appello, se Mannino fosse effettivamente stato così vicino a Cosa nostra nelle vesti di stabile interlocutore politico, «non avrebbe di certo avuto bisogno – per proporle un patto per sé salvifico – né dei militari del Ros né dal suo acerrimo nemico politico Vito Ciancimino, ben potendo presentarsi egli stesso ai vertici del sodalizio come prestigioso mediatore – visto che all’epoca era ancora ministro – per se stesso e per lo Stato». Per questo l’ipotesi di un suo coinvolgimento, per la giudice Piras, non solo non è riscontrata ma appare ancora una volta illogica.
Se per assurdo, ipotizza più avanti la corte, venisse dimostrato che invece l’input di prendere contatti con Cosa nostra fosse stato effettivamente dato da Mannino a Subranni, e poi da questo a Mori e De Donno, e tramite Vito Ciancimino per avere salva la vita, questa iniziativa non sarebbe di per sé sufficiente a contemplare e quindi a punire la previsione delle future minacce mafiose, che si tradurranno nelle stragi del ’93-’94. «Nessuna delle fonti dichiarative sentite, nel descrivere i contatti avviati dal colonnello Mori per favorire la collaborazione di Ciancimino, ha mai fatto invece riferimento a un preesistente mandato politico, costituito secondo l’accusa da Mannino». Tutte, al contrario, hanno «univocamente indicato una richiesta di sostegno politico ex post rispetto all’iniziativa e consistente nel non ostacolare quell’operazione, eventualmente assecondando dove possibile le richieste di benefici personali per Ciancimino (il passaporto la restituzione dei beni sequestrati, ecc), dietro l’assicurazione della cattura dei latitanti». Appoggio che di fatto, poi, non ci fu né da parte del ministro Martelli, né dal presidente Violante. È sullo sfondo di questo contesto che, per la giudice, «l’ipotesi che l’operato di Mori e De Donno celasse l’istigazione di Mannino per salvarsi la vita diventa una remota illazione, priva di qualsivoglia giustificazione logica».
Considerando anche il fatto che i due ufficiali del Ros non avrebbero avuto bisogno di una matrice diversa per mettere in pratica la pseudo collaborazione con Ciancimino, rappresentata appunto da Mannino sempre secondo la tesi dei pm, se avevano avuto già come garante istituzionale dell’operazione addirittura un ministro del governo in carica. A cosa gli sarebbe servita un’ulteriore copertura politica, sperando tra l’altro di non destare sospetti? Nemmeno pentiti come Brusca, Giuffrè e Lipari fanno mai il nome di Mannino come promotore e/o veicolatore del patto ipotizzato dall’accusa. Lipari anzi lo definisce addirittura «inavvicinabile da Cosa nostra». Per la giudice Piras, quindi, sono proprio da un lato «l’assoluta carenza probatoria» e dall’altro «l’illogicità del costrutto accusatorio» che hanno inevitabilmente portato la corte a stabilire «l’assoluta estraneità di Mannino ai fatti».
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