Abbate e Alajmo raccontano la stagione dei lenzuoli «Le due stragi hanno cambiato i palermitani nel Dna»

«Nel ’92 quello che mi ha colpito e che mi colpisce ancora oggi, almeno a Palermo, è il dopo stragi: dal 24 maggio in poi cosa è accaduto qui? Quello che in altre città e terre controllate dalle mafie non è ancora accaduto: una rivolta morale, uno scombussolamento delle coscienze, non soltanto della società, ma anche dei mafiosi». È questo il ricordo più nitido del giornalista Lirio Abbate di quegli anni bui di Palermo. Quel buio però ha qualcosa è servito. Ha trascinato prepotentemente la città di nuovo verso la luce. E tutto, anche se lentamente, comincia a cambiare e ancora oggi Palermo si sta muovendo lungo la stessa traiettoia. «C’è stato un rigurgito di mafiosi che hanno cominciato a collaborare con la giustizia. E ci sono stati i lenzuoli, le catene umane per le strade di Palermo che partivano dal palazzo di giustizia, una cosa spontanea che non si è mai più vista. Non c’era un’organizzazione dietro – spiega il giornalista – era un ritrovarsi lì e mettersi in fila verso l’albero di via Notarbartolo. E noi abbiamo attraversato chilometri e folle di persone che scorrevano in silenzio, che passavano in mezzo a due ali di lenzuola stese dai balconi».

È ancora tangibile l’emozione di Abbate mentre rivive quegli anni, seduto nel cortile della questura, ospite del quarto appuntamento che accompagnerà Palermo al 25esimo anniversario di via D’Amelio. E quello che decide di raccontare è soprattutto il cambiamento della città dopo le stragi del ’92. Lo fa attraverso il racconto dell’arresto del latitante Tanino Tinnirello da parte di un agente fuori servizio che era andato in gita al bosco Ficuzza insieme alla moglie e a un amico della Forestale. «Si fa dare l’arma dall’amico, allontanando tutti gli altri – spiega – si avvicina piano piano al boss che è con sua moglie, gli punta la pistola e lo fa entrare in macchina. Arresta uno dei più pericolosi sicari di Cosa nostra da solo, per spirito di iniziativa. Quell’arresto era riscatto, era la voglia, in un territorio che aveva molto bisogno di tutto questo». Sono identiche le emozioni provate la sera dell’arresto di Giovanni Brusca: «”Non siete invincibili”, era questo il messaggio e mentre lo aspettavi nel cortile della Mobile, potevi avvertire nell’aria le vibrazioni, l’euforia per quella ventata di legalità che tornava a farsi sentire – racconta – Le due stragi ci hanno cambiato nel dna, vale per ad alcuni palermitani».

Le reazioni scaturite da quel dolore non potranno mai essere le stesse di Trapani, Catania, Messina, «non è la stessa cosa», insiste: «Sì, pensano alle stragi anche altrove, ma non hanno un vissuto, non c’è uno scossone interiore, è diverso. Si ricordano le stragi, ma dentro di loro la società è ancora diversa. Questa città è proprio una storia a parte rispetto a tutti gli altri territori in cui, ancora oggi, sono presenti organizzazioni criminali». Gli fa eco lo scrittore Roberto Alajmo, d’accordo col giornalista che ad essere cambiati sono i palermitani. «Quando c’è stato il terremoto di Messina, la terra sprigionò sprigionò un gas chiamato Radon che andò a modificare il dna dei messinesi. Ecco – dice – forse dal cratere di Capaci e da quello di via D’Amelio si è sprigionato un Radon metaforico che c’ha modificato e ha cambiato ogni prospettiva, uno spartiacque molto preciso per la mia generazione». Qualcosa, secondo lui, è cambiato anche nell’uso delle parole: «La parola sbirro per esempio è delicata, a doppio taglio, che bisogna sapere usare, paragonabile alla parola frocio – spiega – Se sei gay puoi dire frocio, se non sei gay devi dire gay. Per la genereazione che è venuta dopo le stragi sbirro non è più una parola d’offesa, adesso è una parola trasversale. Quella fu una stagione dopo la quale nessuno di noi è stato più simile».

Diffida, poi, da chi della Sicilia ha una visione drastica: è splendida oppure orribile. Palermo e la Sicilia per lui riescono a essere contemporaneamente le due cose, «non si risolve tutto liquidando con il pessimismo di alcuni o con l’ottimismo a oltranza di altri, tutto è compreso fra questi due estremi senza una sintesi possibile – continua a dire – Però la strada dal ‘92 a oggi almeno non è un’autostrada, forse è una strada tortuosa e di campagna che a volte sembra tornare indietro, ma la direzione è quella, non credo che si possa oggettivamente dire che oggi Palermo non sia migliorata rispetto a 25 anni fa». Nella Palermo che racconta nei suoi libri la mafia c’è, ma relegata nel posto che le spetta. «Quello della lotta alla mafia è un grandissimo romanzo popolare che noi spesso abbiamo buttato via per ecesso di esposizione, ci sono cose che sono state viste talmente tanto che hanno creato assuefazione e, in certi casi, abbiamo sfiorato anche il rischio di identificazione – conclude – Diamo alla mafia un ruolo secondario, la mafia è una puzza nella maggior parte dei casi. È sbagliato dire che non esiste ma anche che sia tutto, quando si passa da un eccesso all’altro si finisce per enfatizzare. Palermo va raccontata senza essere angelicata, è una città che soffre del fatto di essere diventata la cartolina di se stessa, forse non c’è modo di sfuggire a Palermo».

Silvia Buffa

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