A Castelluccio di Noto c’è un olio d’oliva di 4.000 anni fa Il siciliano che l’ha scoperto: «Era in antichi Tupperware»

L’olio d’oliva più antico d’Italia è made in Castelluccio di Noto. «È in un grosso vaso e in due vaschette di terracotta divise in scompartimenti, come moderni Tupperware, che abbiamo trovato la traccia chimica dell’olio d’oliva mai rinvenuta finora in Italia». A fare la scoperta nell’acropoli fortificata contemporanea alla necropoli della prima età del Bronzo (2200-1450 a.C.) in provincia di Siracusa è stato l’archeologo Davide Tanasi. Dopo la localizzazione del sito archeologico fatta da Paolo Orsi, negli anni Ottanta sono stati fatti scavi che hanno portato alla luce molti materiali. In particolare, questi contenitori sono stati ritrovati nella capanna numero otto. «Una delle 12 scoperte dall’archeologo Giuseppe Voza nel suo scavo ancora inedito», dice a MeridioNews Tanasi.

«Finora gli archeologi hanno studiato la forma, il materiale e la funzione generica dei vasi, noi invece abbiamo pensato di stabilirne il contenuto – spiega Tanasi – tenendo conto del fatto che i contenitori, non importa quanto siano antichi, tengono memoria del prodotto che hanno contenuto perché riescono ad assorbire particelle impercettibili sia di liquidi che di solidi». Originario di Noto e catanese di adozione, Tanasi da circa due anni e mezzo si è trasferito a Tampa in Florida dove è professore associato all’University of South Florida. Torna comunque in Sicilia ogni estate per portare avanti i suoi lavori.

«Lì mi occupo, in particolare, di archeologia digitale (cioè l’applicazione di tecnologie digitali per documentare, analizzare, interpretare il patrimonio archeologico, ndr) e di archeologia biomolecolare (lo studio della nutrizione e del cibo nell’antichità attraverso l’analisi dei residui nei contenitori, ndr) all’interno di un progetto complessivo che riguarda le origini della dieta mediterranea anche attraverso lo studio delle ossa umane». Alte tecnologie, chimica, fisica e geologia impiegate all’archeologia, un ponte di collegamento tra il passato e il futuro. 

Prima di questa innovativa scoperta, si credeva che le tracce di olio d’oliva italiano più antico fossero quelle ritrovate a Lecce e Cosenza databili tra il XII e l’XI secolo a.C. I castellucciani, però, avrebbero precorso i tempi di almeno 700 anni nella produzione. «Siamo riusciti a stabilire – precisa Tanasi – che il vaso più grande, di oltre un metro e mezzo di altezza, sarebbe stato utilizzato per conservare il prodotto. Le vaschette più piccole invece – continua – sarebbero servite per preparare e consumare i cibi, carni per i più ricchi e verdure per i meno facoltosi, sempre accompagnati da un pinzimonio». 

Ciò che è rimasto anche a migliaia di anni di distanza (circa quattromila per la precisione) è il segnale degli acidi grassi «a cui siamo arrivati tramite due tecniche analitiche di diverso tipo: la Using nuclear magnetic resonance (Nmr) e la Gas chromatography – Mass spectrometry (Gc-Ms). Ovvero una risonanza magnetica nucleare e una gas cromatografia. Gli acidi grassi, in questo caso vegetali, restituiscono uno spettro, una sorta di immagine sintetizzata, che poi si confronta con i database». È da questo confronto che si è arrivati a determinare l’olio d’oliva più antico mai trovato prima.

Tra i muretti a secco che dividono i pascoli dai terreni con gli ulivi e i carrubi, sono oltre duecento le tombe scavate nelle pareti rocciose delle cave della Valle della Signora. Tra queste anche la monumentale tomba del principe, con tanto di finti pilastri all’ingresso. Non solo la necropoli, anche l’acropoli risale alla prima età del bronzo. «I ritrovamenti fatti in questa zona – spiega la guida naturalista Paolo Uccello – parlano di una cultura prettamente montana che, però, probabilmente avrà avuto anche contatti diretti con la costa». Durante le escursioni organizzate nella zona, si può visitare anche la Grotta dei Santi «un oratorio rupestre del periodo bizantino – illustra Uccello – dove è possibile ammirare, sebbene sbiadite, alcune decorazioni e iconografie dell’epoca». 

Marta Silvestre

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