Via d’Amelio, in Antimafia l’ex ministro Claudio Martelli «Lo Stato diede segnali di cedimento a Cosa nostra»

«Io non ho mai capito perché ci si sia arrovellati su processi che rischiano di finire nell’archeologia giudiziaria, quando la verità è lì: si è pensato di dare un segnale di disponibilità, io ho sempre pensato a un cedimento dello Stato non a una trattativa». È questo uno dei passaggi più significativi dell’audizione di Claudio Martelli, l’ex ministro della Giustizia sentito oggi dalla commissione regionale Antimafia nell’ambito della nuova indagine sul depistaggio seguito alla strage di via D’Amelio. Martelli, che ha vissuto il periodo delle stragi del ’92 in prima linea, ha risposto alle domande per larga parte poste dal presidente della commissione Claudio Fava

«Del resto, la prova di quanto sia stata sbagliata quell’idea – ha continuato Martelli – sta nel fatto che dopo quei segnali di disponibilità all’ala moderata di Cosa nostra gli attentati non sono finiti, sono continuati». Tra i segnali di disponibilità individuati da Martelli c’è senz’altro il rapporto istituito dal colonnello del Ros Mario Mori con Vito Ciancimino, l’ex sindaco mafioso di Palermo. Passaggio fondamentale per chi sostiene che tra Stato e Cosa nostra ci fu una vera trattativa. «Mori a Ciancimino disse, e lo ammette lo stesso Mori a processo – ha proseguito l’ex guardasigilli – “Dobbiamo fare ancora muro contro muro?”. Ecco a me ciò suggerisce ilarità, cioè il generale del Ros che chiede se sia ancora il caso di fare muro contro muro».

Un altro passaggio affrontato nel corso dell’audizione è stato quello concernente un fatto a dir poco irrituale accaduto nel periodo in cui Giovanni Falcone era già al dipartimento Affari penali. «Ricordo che al ministero arrivò un plico, che venne poi trasferito a Falcone e Liliana Ferraro. Quel plico conteneva una sorta di sintesi o il testo completo di un’indagine in corso a Palermo. Il plico era stato inviato da Giammanco, procuratore capo di Palermo». Le carte riguardavano l’inchiesta su mafia e appalti a cui aveva lavorato il Ros di Mori e De Donno. «Falcone mi disse: “Guarda, non aprirlo neanche. So di cosa si tratta, ma se lo apri ti metti nei guai“», ha ricordato Martelli. Che poi ha rimarcato l’irritualità di quella vicenda: «Cioè un ministro che riceve le carte da una procura? O siamo in un’altra Repubblica o siamo completamente fuori dal seminato», ha commentato l’ex ministro, alludendo anche alla possibilità che quella mossa di Giammanco potesse, in qualche modo, avere come conseguenza l’inquinamento e, di conseguenza, la rovina dell’indagine. «Accadde anche per quel rapporto (del Ros, ndr) divulgato senza omissis – ha detto Fava – I nomi più alti dell’imprenditoria italiana dell’epoca seppero in tempi reali che alcuni collaboratori stavano parlando di appalti».

Tra le domande poste a Martelli c’è anche quella riguardante il coinvolgimento dell’Fbi nell’indagine sulla strage di Capaci. Un fatto su cui, l’anno scorso, un ex agente del Federal Bureau of Investigation statunitense si è espresso, ricordando che alcuni dei colleghi che collaborarono all’epoca con l’Italia non si sarebbe contraddistinti per l’imparzialità del proprio operato. «L’iniziativa fu mia su suggerimento del mio più stretto collaboratore. Le indagini – ha spiegato Martelli – riguardarono la ricostruzione del dna dei killer. Ma già Falcone aveva collaborato con l’Fbi, io pensai di sfruttare questa opportunità (le analisi sul dna, ndr) all’epoca preclusa agli investigatori italiani».

Inevitabile anche un riferimento all’isolamento che subì Paolo Borsellino dopo Capaci e a tutto ciò che si sarebbe potuto fare e non fu fatto. «In quei 57 giorni tra le due stragi, delle indagini Borsellino non ne ha avuto notizia – ha ricordato Fava – Di Pietro ha ricordato una nota del Ros di Milano che indicava come destinatario di un attentato Paolo Borsellino. Borsellino non lo seppe mai». «Io veramente sono turbato ancora oggi se penso a ciò che è stato omesso di fare da tutte le autorità dello Stato a Palermo – ha replicato Martelli – Nonostante le segnalazioni ricevute da me, dai miei uffici, dal ministro Scotti (all’epoca capo del Viminale, ndr) e dai suoi uffici in merito a una particolare tutela e sorveglianza che doveva essere messa nei confronti di Borsellino. Ritenevamo fosse il nuovo obiettivo».

Dopo l’esplosione della 126 parcheggiata in via D’Amelio, il 19 luglio del 1992, per Martelli le forze dell’ordine e le autorità si chiusero a riccio. La mancata tutela di Borsellino, per l’ex ministro, è spiegabile con atteggiamenti che vanno «dall’incuria colpevole a qualcosa di peggio che si può definire come omertà e omissione più o meno consapevole». Sulla richiesta di coinvolgimento rivolta ai servizi segreti, in particolar modo nella figura di Bruno Contrada, dall’allora procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra, Martelli ha detto: «Un fatto possibile soltanto violando la legge, considerato peraltro che già all’epoca esisteva la Direzione investigativa antimafia a cui Tinebra avrebbe dovuto chiedere collaborazione». Quelli sono i mesi in cui, mentre Contrada lavora a stretto contatto con i magistrati nisseni, a Palermo la procura lo indaga per i rapporti con Cosa nostra. «Come è possibile che le due procure andassero in direzione opposta?», ha chiesto Fava. Questa la risposta di Martelli: «La storia della magistratura inquirente degli ultimi 30, o forse sarebbe meglio dire 50 anni, è piena di episodi analoghi caratterizzati da contrasti o addirittura guerre tra magistrati».


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