Terrorismo, condannata la ricercatrice libica Un anno e otto mesi per istigazione a reato

Il gup di Palermo Lorenzo Iannelli ha condannato, in abbreviato, a un anno e 8 mesi di reclusione Kadiga Shabbi, ricercatrice universitaria libica accusata di istigazione a commettere reati in materia di terrorismo. Il giudice ha dichiarato sospesa la pena e ha disposto la scarcerazione dell’imputata, in cella da un anno.

Quattro anni e sei mesi di carcere. Questa era la richiesta della Procura di Palermo. La ricercatrice universitaria libica è stata fermata a dicembre del 2015 con l’accusa di istigazione a commettere reati in materia di terrorismo. Attraverso i social la donna avrebbe fatto propaganda a gruppi estremisti islamici e avrebbe avuto contatti con organizzazioni terroristiche come Ansar Al Sharia Libya e Libia Shield One e con foreign fighters ritornati in Europa dopo avere combattuto nei conflitti in Libia e Medio Oriente. 

Il gup ha riconosciuto l’aggravante della finalità terroristica e dell’uso del sistema informatico, mentre ha negato quella della transnazionalità. L’inchiesta sulla Shabbi prende il via da alcune segnalazioni. La polizia comincia dal web mettendo in luce una intensa attività di propaganda svolta dalla ricercatrice in favore di una serie di organizzazioni terroristiche islamiche come Ansar Al Sharia Libya, tra le maggiori oppositrici del governo di Tobruk, e del suo leader Ben Hamid Wissam. La donna, interessatissima alle vicende politiche del suo Paese, visitava continuamente le pagine Facebook di diversi gruppi legati all’estremismo islamico, condivideva sul suo profilo facebook materiale di propaganda della attività di organizzazioni terroristiche: volantini, ‘sermoni’ di incitamento alla violenza e scene di guerra. 

Dall’inchiesta sono emersi anche contatti con foreign fighters che avevano combattuto in Libia ed erano poi tornati in Inghilterra e in Belgio. La ricercatrice avrebbe anche tentato di fare avere un visto di studio al nipote, Abdulrazeq Fathi Al Shabbi, combattente ricercato dalle truppe dell’esercito regolare, vicino all’organizzazione Ansar al Sharia, formazione salafita collegata alla rete di jihadismo internazionale autrice, nel 2012, dell’attentato a Bengasi al Consolato americano. Il ragazzo, che la nipote definisce un martire, sarebbe morto in un conflitto a fuoco e in Italia non sarebbe mai giunto. In diverse intercettazioni la donna chiedeva vendetta per il nipote.

«Ora che è stata scarcerata, la mia cliente riprenderà il suo lavoro all’università di Palermo visto che la sua borsa di studio, pagata dall’ambasciata libica, non è mai stata sospesa». Lo dice l’avvocato Michele Andreano, difensore della ricercatrice libica scarcerata dal gup dopo una condanna con pena sospesa a un anno e 8 mesi per istigazione a commettere reati di terrorismo. «Rispetto al quadro delineato dalla procura, che era devastante, – ha aggiunto – la vicenda è stata ridimensionata. Dire che siamo soddisfatti è improprio, visto che, per noi, doveva essere assolta con formula piena, ma in questa fase il nostro primo interesse era legato alla libertà personale e da questo punto di vista è andata bene». L’avvocato, che ha annunciato che comunque ricorrerà in appello, ha aggiunto: «La mia cliente non ha commentato il verdetto, ma quando ha sentito che sarebbe stata scarcerata è scoppiata a piangere per la gioia».


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