Gli ultimi giorni di luglio, l’intero mese di agosto e i primi giorni di settembre. È il tempo che hanno a disposizione le aziende che si occupano di raccolta di rifiuti per preparare i documenti per la partecipazione alla gara settennale del Comune di Catania. Un appalto da oltre 319 milioni di euro che già una volta – all’inizio dell’anno – era andato deserto. Tra le polemiche di chi riteneva i requisiti di accesso troppo stringenti e chiamava in causa l’Autorità nazionale anticorruzione. Adesso l’amministrazione è corsa ai ripari e quei requisiti sono cambiati. Prima potevano partecipare solo le aziende che avevano già lavorato, nel triennio 2013-14-15, in città con almeno 315mila abitanti (cioè il cento per cento dell’utenza di Catania) e a seguito di gare d’appalto da 150 milioni di euro. Adesso il numero minimo di abitanti è sceso a 80mila (il 25 per cento della popolazione del capoluogo etneo) e nell’importo dell’appalto è inserita una specifica sulla raccolta dell’amianto (per i quali l’azienda che partecipa alla gara deve avere speso almeno un milione e mezzo di euro).
Tra i criteri che cambiano c’è anche quello della percentuale di raccolta differenziata raggiunta in precedenti appalti: ora è il 31 per cento, per almeno 12 mesi, in Comuni grandi un quarto di Catania. Prima, invece, era il 39 per cento su città grandi tanto quanto quella dell’elefante. Percentuali elevatissime nell’Isola della differenziata che va a singhiozzo, soprattutto nei grandi centri urbani, e che sono costate all’amministrazione etnea un passo indietro perché nessuna azienda ha voluto presentarsi alla gara. Un rallentamento che ha avuto, per diretta conseguenza, la necessità di realizzare un mini bando da undici milioni, della durata di 106 giorni rinnovabili, che modificasse solo di poco i vecchi criteri di raccolta della spazzatura. Un altro capitolo del pasticcio rifiuti all’ombra dell’Etna. Perché se per anni a occuparsi dell’igiene urbana in città è stato il consorzio Ipi-Oikos, composto da due aziende su cui la prefettura aveva fatto scendere la scure del commissariamento, adesso il raggruppamento d’imprese che ha in mano il servizio è l’unico che si è presentato alla cosiddetta gara ponte.
Cioè: Senesi ed Ecocar. Entrambe colpite in passato da interdittive antimafia, con un dato in più: Ecocar è di proprietà della famiglia Deodati. Gli stessi imprenditori che hanno dato vita a Ipi. Dal 16 maggio è il duo Senesi-Ecocar a gestire la spazzatura catanese e, considerati i tempi per il nuovo appalto settennale, appare chiaro che sarà loro concessa una proroga. Perché il 13 settembre, giorno del termine per la presentazione delle offerte per il bando da 319 milioni di euro, sarà in scadenza anche il primo periodo di interregno affidato alle due imprese. Rispetto alla romana Ecocar, inoltre, la prefettura capitolina non ha inviato in tempo la certificazione antimafia. Così, visto che non era possibile attendere ancora per motivi di salute pubblica, a maggio il servizio è stato affidato sotto riserva di legge. E a giugno, infine, «decorsi i termini» per la risposta prefettizia, l’aggiudicazione è diventata efficace. Pur senza il documento antimafia.
Le altre aziende, nel frattempo, cominciano a preparare tutto il materiale necessario alla partecipazione alla gara d’appalto che regolerà il tema munnizza all’ombra dell’Etna per i prossimi sette anni. Certo, in mezzo ci sono l’estate e le ferie, ma alcune imprese hanno già iniziato a valutare la documentazione e a formulare domande di chiarimenti. Un primo quesito ha riguardato la quantità minima di personale che dovrà essere assunto, transitando dalla vecchia gestione della raccolta differenziata a quella nuova: in totale sono 634 operai e 20 impiegati, tutti a tempo indeterminato, dei quali la nuova impresa – o raggruppamento d’imprese – dovrà farsi carico. Con la nuova gara è più difficile fare previsioni su chi potrebbe decidere di partecipare, avendone i requisiti: in Sicilia superano lo scoglio degli 80mila abitanti previsti dal bando i capoluoghi di provincia Palermo, Catania, Messina e Siracusa, e la città di Marsala. Aggiungendo il resto d’Italia sono almeno una cinquantina i Comuni sufficientemente grandi per i quali le imprese devono avere lavorato.
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