Ricercatrice libica, le motivazioni dell’assoluzione «Verdetto di primo grado viziato dal pregiudizio»

«Una lettura a senso unico». Non usa giri di parole il giudice Angelo Pellino della seconda corte d’assise d’appello di Palermo per descrivere la sentenza che condannava la ricercatrice libica Khadiga Shabbi per istigazione al terrorismo, sentenza impugnata dalla difesa e ribaltata con verdetto opposto a dicembre scorso. Una lettura, scrive adesso il magistrato rispetto al verdetto di primo grado, «non scevra di un latente pregiudizio, ispirato dalla logica emergenziale della normativa in materia di contrasto al terrorismo internazionale, nell’escludere possibili e plausibili letture alternative del contenuto e significato dei reperti scrutinati, o nel trascurare di considerarne parti salienti – si legge nelle carte depositate solo pochi giorni fa -. Una lettura che, in qualche caso, si è tradotta in un involontario travisamento del significato più autentico e più profondo dell’esternazione presa in considerazione. A tratti sia l’informativa della Digos del 26 novembre 2015 sia la motivazione della sentenza impugnata che vi attinge copiosamente sembrano cedere alle suggestioni di un diritto penale del nemico».

Quello che il giudice Pellino imputa, più di tutto, al magistrato che nel vagliare il caso e le prove lo ha preceduto, è una «prospettazione accusatoria inficiata da una non corretta contestualizzazione delle condotte ascrivibili all’imputata». Shabbi, accusata di avere svolto attività di propaganda in favore dei gruppi jihadisti impegnati nel conflitto in corso in Libia contro il governo riconosciuto dalla comunità internazionale, è stata difesa dall’avvocato Michele Andreano del foro di Roma e dal collega Salvatore Gambino di Palermo. Arrestata e condannata in abbreviato il 3 febbraio 2017 a un anno e otto mesi dal gup (i fatti contestati risalgono al 2015), la donna è stata completamente scagionata in secondo grado «perché il fatto non sussiste». L’impianto della procura faceva leva principalmente su quanto condiviso dalla donna nel proprio profilo Facebook e su specifiche pagine del social e gruppi (sia aperti che chiusi) – ma anche su pagine da lei create ad hoc -. Per i pm materiale propagandistico delle attività svolte da gruppi islamici di natura terroristica, sia di tipo documentale (volantini, ordini, istruzioni e altro) che video-fotografico (scene di guerra, immagini di guerriglieri, discorsi propagandistici e altro).

Assunto che, in primo grado, le vale una condanna. Il procedimento contro Shabbi nasce da un’indagine condotta dalla sezione antiterrorismo della Digos di Palermo che, attraverso intercettazioni telefoniche e di flussi telematici e altri accertamenti tecnici ha prodotto quel materiale ultimo sul quale poi i magistrati hanno costruito il proprio impianto accusatorio. Shabbi, arrivata in Italia dopo aver vinto un concorso di dottorato di ricerca in Scienze economiche, aziendali e statistiche all’università di Palermo, partito a gennaio 2015 e con termine previsto per dicembre 2017, con borsa di studio finanziata dalle autorità libiche, finisce sotto la lente degli inquirenti proprio da gennaio 2015, in seguito alla segnalazione di una fonte ritenuta attendibile che la indicava come un personaggio vicino alle fazioni di matrice islamica.

Viene quindi passata al setaccio la sua attività sui social. E l’esito, per la corte che in primo grado la condanna, è interpretabile in un solo modo: Shabbi si dedica soprattutto alla «diffusione di informazioni inerenti la lotta armata, attraverso il metodo semplice dei like sulle pagine Facebook di interesse» e condividendone i contenuti, sortendo così un risultato per loro inequivocabile, quello di «dare loro maggiore visibilità, così innescando il meccanismo virale di diffusione della notizia». Tuttavia, il gip nella sua ordinanza del 23 dicembre 2015 dispone per la donna l’obbligo di dimora ma respinge invece la richiesta dei pm di custodia cautelare, specificando che «le condotte di Shabbi si sono limitate a prese di posizione, talora pubbliche e spesso originate da una vicenda privata quale la morte del congiunto, slegate da contributi effettivi in favore di alcun gruppo terrorista, contributi di cui l’indagine non fornisce evidenza alcuna». Una valutazione, questa, sposata da subito dalla difesa della donna e fondata su un castello di prove sostanzialmente analogo a quello su cui poggia l’opposta valutazione del giudice di primo grado.

«Chi istiga – si legge ancora nelle motivazioni – non si limita a dire quel che pensa, ma prova piuttosto a manipolare la realtà esterna in modo che questa si conformi ai suoi desideri». E più avanti ancora, il giudice «censura la tecnica motivazionale della sentenza per avere affastellato una serie di episodi slegati dalle contestazioni, o addirittura anteriori all’arco temporale di riferimento delle stesse, al solo fine di fornire una tendenziosa descrizione della personalità dell’appellante come contraddistinta da una speciale inclinazione al delitto». «Il fatto stesso – si legge ancora – che Shabbi non si preoccupasse di manifestare apertamente il suo pensiero in pagine accessibili a tutti gli internauti sarebbe indice dell’assoluta buona fede che ispirava la sua condotta, il cui unico fine, dopo la morte dell’amato nipote, era piuttosto ricevere informazioni sull’andamento del conflitto, quello di avere notizie sulla sua vera sorte, non accettare l’idea che fosse morto». Da qui l’intensificazione della sua navigazione in rete e l’effetto destabilizzante di un dolore che per la difesa non riusciva a placare e tradotte anche in quella che per Pellino non è che una «generica richiesta di vendetta», che qualifica questa e tutte le altre affermazioni al vaglio dei magistrati come «prese di posizione di natura privata», come riconosciute inizialmente in fase preliminare anche dal gip.

Le condotte in questione palesano piuttosto, per il giudice Pellino, «l’idea della sporadicità e del carattere estemporaneo, cioè improvvisato e occasionale, delle condotte in questione». Mentre etichetta la lettura del giudice intervenuto in primo grado come «pregiudizialmente orientata, semplificata e fuorviante». Manca la prova di un consapevole e deliberato intento di contribuire alla diffusione e divulgazione di documenti di propaganda, o comunque manca la prova che tale effetto si sia verificato: apporre un semplice like non è che una manifestazione di assenso o di approvazione che può anche avere ad oggetto esternazioni o proclami riprovevoli: «Nulla aggiunge al documento cui viene apposto, se non una generica e laconica manifestazione di assenso. Insomma, apporre sporadicamente e in occasione di qualche isolata incursione in siti web un like a un documento di contenuto apologetico non è la stessa cosa che immettere in rete quel documento». Gli elementi che il giudice di primo grado ha ritenuto di individuare per corroborare l’efficacia probatoria appaiono, quindi, per Pellino inevitabilmente «evanescenti».


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