Quell’oceano d’infanzia in una scrittrice

di Gabriele Bonafede

Raramente l’Oceano Atlantico è calmo. Le sue onde s‘infrangono su sabbia o scogli con un moto sempre possente e che, stranamente, rassicura proprio per questo. Lo si capisce quando non è agitato. Chiunque abbia vissuto accanto all’oceano per un tempo sufficiente a vederlo calmo almeno una volta, si rende conto che quella massa d’acqua piatta senza le onde quotidiane diventa molto più inquietante, profonda, immensa. L’oceano senza onde rivela la sua grandiosità.

Solo a quel punto, quando si vede l’oceano finalmente calmo, come se fosse un sogno o un ricordo lontano, si è fatto un primo passettino, un passettino d’infanzia, per conoscere l’infinito.

Ispirarsi a ciò che ci possa essere oltre quel vasto oceano, ancora più vasto se calmo, vuol dire confrontarsi con l’infinito e dunque sapere d’esserne schiacciati. Di più, se dietro quell’infinito c’è la storia della vita dalla quale proveniamo, le vicende dei propri antenati, siano esse ammirevoli o meno. E si rimane ancor più schiacciati di fronte all’infinito se si osserva “il mondo dei grandi” con gli occhi e i ricordi di bambina o bambino. Si rimane sospesi sull’acqua tra i ricordi, rari, della calma, e quelli, quasi perenni, dell’agitazione.

Tutto questo è evidente fin nelle prime pagine di “Oltre il vasto oceano, memoria parziale di Bambina” nuovo romanzo della scrittrice e artista palermitana Beatrice Monroy.

L’autrice non si nasconde, anzi esalta le proprie sensazioni di disorientamento, producendo quelli che sono sogni e ricordi assieme: come nel sogno del mattino il reale e il surreale si mischiano inestricabilmente. A volte c’è la precisione, la “contabilità” ragionata del ricordo, a volte c’è il sogno puro, con le slegate parole del miraggio e con i refrain del lessico familiare. “Cabrones!” dicevano ai sottoposti, gli antenati mentre erano al servizio sanguinario dei re di Spagna. “Matar, matar!”. Echeggiano le voci del passato.

Senza false apologie, la Monroy mostra i propri avi così come sono stati, o come potrebbero essere stati: nudi e crudi, esaltati dal racconto frammentario. Esattamente come sono tutti i sogni e tutti ricordi d’infanzia. Preferisce immergerci nelle sue stesse sensazioni, la scrittrice, a costo di richiedere uno sforzo supplementare, un’attenzione particolare nell’accettare lo stile d’interi tratti di narrazione. Ma poi, come in tutte le avventure del leggere e del navigare, il premio arriva ed è sostanzioso. Quando anche noi ci riconosciamo in una storia della nostra città, o di una nostra vicenda, capiamo anche il resto.

Così, se abbiamo avuto anche noi ricordi d’infanzia che ritroviamo all’improvviso oltre il vasto oceano, non possiamo non abbandonarci a un piacere subliminale, intenso, infantile nel leggere il romanzo. Ad esempio se riconosciamo la vicenda di Villa Deliella a Palermo, o di qualsiasi analogo fatto in una qualsiasi città italiana che sappiamo essere nostra, non possiamo non riconoscere anche noi i nostri ricordi d’infanzia, pure tramandati dai nostri padri o nonne, su quella Palermo, su quella città, su quelle vicende. E il tutto ci tocca da vicino, tra il preciso e il vago, tra il reale e il surreale. È l’emozione. È l’oceano.

Gabriele Bonafede

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