E' fissata per il 31 marzo 2015 la chiusura dei presidi sanitari psichiatrici per detenuti. Al loro posto, dei percorsi alternativi che, secondo la società italiana di psichiatria, alletterebbero soprattutto i soggetti ben organizzati, come le mafie, a cercare di barare sulle perizie. Un'eventualità resa più semplice dall'uso di test di valutazione vecchi e dall'assenza di coordinamento tra medici e magistrati. Mentre in Sicilia è ancora bloccato persino il passaggio alla nuova struttura di borgo San Pietro, a Caltagirone
Psichiatri sullo stop agli ospedali giudiziari «La riforma facilita l’infiltrazione mafiosa»
«Fino a oggi, piuttosto che finire all’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto era meglio andare in prigione. Ma da domani?». Così Emilio Sacchetti, presidente della società italiana di psichiatria e direttore della scuola di specializzazione dell’università di Brescia, commenta le prospettive a meno di un anno dalla prossima chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), tra cui quello siciliano. Uno scenario fatto di eccessiva discrezionalità nelle perizie e allettanti percorsi alternativi, sui quali la Sicilia è indietro rispetto al resto dell’Italia. «Con la chiusura degli ospedali, che comunque è sacrosanta, c’è chi potrebbe decidere di fare il furbetto – continua il docente – Su tutti, la criminalità organizzata, che ha certo modo di far truccare una perizia».
«Riteniamo che la riforma sia un grande passo avanti, ma bisogna stare attenti a due concetti: la pericolosità sociale e le perizie in generale. Se non si definiscono criteri più moderni, il rischio è che qualcuno si avvantaggi di queste lacune», commenta Sacchetti. Perché in psichiatria non esistono né esami del sangue né radiografie per stabilire un’eventuale patologia. «Dire che uno si incazza facilmente è diverso dal dire che ha una malattia mentale. E poi, io posso anche essere affetto da una patologia ma, se commetto un reato, come si stabilisce quanto e se ha inciso la malattia?». «Nel nostro lavoro c’è una certa dose di discrezionalità, ma si potrebbe prevedere una valutazione basata su fattori di rischio e vulnerabilità già studiati e diversi per i vari Paesi», spiega il docente.
E invece oggi le perizie psichiatriche in sede giudiziaria si basano su criteri per lo più soggettivi. «I test di profilo sono clinicamente inaffidabili e vecchi di decine di anni. Io personalmente, nella mia attività privata, non li uso più da tempo – continua – Ma questa situazione è accettata dalla magistratura, con cui non abbiamo alcun accordo sugli strumenti da usare. Per questo chiediamo la creazione di un tavolo tecnico che lasci meno spazio alle deviazioni».
Chi è affetto da una malattia mentale e commette un reato, infatti, verrà «curato come tutti gli altri pazienti non detenuti, in regime di libertà o semilibertà, in un contesto più dignitoso». Eccetto chi si è macchiato di gravi reati o è sottoposto a una misura di sicurezza. In quei casi la riforma prevede la creazione delle Rems: residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, «strutture comunque più sanitarie che carcerarie», sottolinea Sacchetti. «Per la Sicilia c’è una nota del ministero di Giustizia di un paio d’anni fa – conclude il docente – Gli stanziamenti per parecchi milioni di euro in buona parte sono già stati fatti per una struttura da un’ottantina di posti, ma non ne ho poi saputo più niente».
«La Rems dovrebbe sorgere nella struttura sanitaria di Santo Pietro, a Caltagirone, ma è tutto fermo e si è in grande ritardo», conferma Liliana Gandolfo, presidente fresca di nomina della sezione siciliana della società italiana di psichiatria, già primaria di Psichiatria presso l’Asp di Catania e psichiatra forense. Un ritardo forse dovuto anche all’opposizione dei cittadini del borgo di Santo Pietro – riuniti in un comitato – e alla battaglia politica arrivata anche all’assemblea regionale siciliana con interpellanze da parte dell’opposizione al governo Crocetta. «Intanto Barcellona Pozzo di Gotto, nei fatti, è già chiuso. I magistrati non possono più mandare nessuno lì. Per questo sono già stati avviati alcuni percorsi alternativi». Che, secondo la dottoressa, andrebbero garantiti anche all’intero delle carceri tradizionali. «Di certo servono cure piuttosto che sanzioni – continua Gandolfo – Ma a monte c’è la necessità di rigore scientifico. Perché è certo che l’idea di un percorso alternativo alla detenzione può sedurre».