Ricordando i mondiali…

Tra un mese circa cominceranno gli Europei di calcio e sono milioni gli italiani che sperano di vendicare la clamorosa beffa subita dalla Francia quattro anni or sono e di poter scendere in piazza finalmente a festeggiare una vittoria che manca da tanti, troppi anni.  Si dice che in Italia i tricolori vengano sventolati nelle piazze e per le strade ed esposti nei balconi solo in occasione delle vittorie della nazionale di calcio. Ed è un si dice che ha il suo innegabile fondo di verità. In un paese spesso lacerato da scontri ideologici e da una dialettica politica che impedisce una reale condivisione di un forte sentimento di appartenenza e di identità nazionale, ecco che all’improvviso, ad intervalli irregolari dettati dalla schizofrenia dei successi della nazionale azzurra, tutte queste differenze vengono cancellate ed un paese intero si ritrova, ebbro di gioia, a inondare le strade e le piazze di tutti i centri abitati, dal più piccolo dei borghi di campagna alla più grande delle metropoli. L’operaio e l’imprenditore, il negoziante ed il professore, la casalinga e lo studente, il bambino ed il nonno: non esistono più differenze anagrafiche, di sesso o di classe sociale, sono tutti italiani che festeggiano allo stesso modo un successo che non è soltanto un trionfo sportivo.

Solo tre volte, nella storia del nostro paese dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, il popolo italiano è sceso per le strade in massa, senza distinzioni ideologiche, politiche e sociali: la prima volta all’indomani della liberazione dal giogo nazi-fascista; la seconda e la terza per due trionfi sportivi, ed in particolare calcistici: dopo la vittoria per 4 a 3 contro la Germania ai mondiali del 1970, e a seguito del trionfo mundial in Spagna nel 1982. E se la prima manifestazione popolare di identità nazionale fu comprensibilissima, in quanto ricollegabile ad una vera e propria esibizione collettiva di uno sfogo liberatorio e di una irrefrenabile voglia di rinascita, le altre due sono forse meno speigabili ma non per questo meno giustificabili.

Nella notte tra il 17 e il 18 giugno 1970, al termine di una delle più appassionanti partite di calcio mai giocate nella storia in cui l’Italia era riuscita a conquistare l’accesso alla finale della coppa del mondo grazie alla vittoria contro la Germania Ovest, 30 e più milioni di Italiani si riversarono per le strade a festeggiare il successo, fu la prima volta dalla fine della guerra che i simboli dell’unità nazionale, a cominciare dal tricolore (l’ultima volta che i tricolori erano stati sventolati era stato nel 1954 per il ritorno di Trieste all’Italia, eccezion fatta per alcune manifestazioni neofasciste) furono rispolverati ed esposti con orgoglio. Perché tanto giubilo, tanta voglia di condividere con gli altri italiani questa felicità? In primo luogo va considerata l’eccezionalità del risultato sportivo. In Italia  il calcio aveva sempre rappresentato lo sport nazionale e finalmente, dopo tanti anni caratterizzati da delusioni cocenti (la sconfitta con la Corea del Nord ai mondiali del ’66 su tutte), stava rivivendo una fase di rilancio internazionale a partire dalla vittoria agli Europei del ‘68.
In seconda istanza va poi considerata la particolarissima congiuntura storica e sociale, essendo quegli anni caratterizzati da una situazione di forte scontro ideologico, sociale e generazionale, strascichi di un ’68 ancora in piena evoluzione e con il pesantissimo valore aggiunto della strage di Piazza Fontana. Quella vittoria riuscì a dare linfa a tutti gli elementi sociali e generazionali protagonisti in quegli anni e, nel contempo, a travalicare le differenze trasmettendo un unico messaggio positivo. Una vittoria in cui, per usare le parole di Nando Dalla Chiesa, “si fusero giovinezza, amicizie, battiti antichi, speranze nuove e la prima, meravigliosa constatatzione che con il coraggio, nella vita si può anche vincere” (N. Dalla Chiesa, La Partita del Secolo, Milano 2001).  
Non può infine essere sottovalutata l’importantissima funzione svolta in quell’occasione dal mezzo televisivo, oramai presente nelle case di quasi tutti gli italiani e divenuto elemento fondamentale di una cultura popolare che stava prendendo sempre più piede e di cui il fenomeno calcistico faceva pienamente parte. Se gli italiani scesero in piazza in massa fu soprattutto perché di quella “meravigliosa partita”, come venne definita in diretta dal telecronista Nando Martellini (scomparso proprio in questi giorni, con enorme rammarico di chi, come il sottoscritto, non riesce ad immaginare altra colonna sonora alle vittorie dell’Italia che non sia la sua voce), essi erano stati, proprio grazie alla televisione, testimoni oculari.


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