Pronto soccorso al collasso, in aumento le aggressioni «Abbiamo sempre la sensazione di essere in pericolo»

Le aggressioni all’interno degli ospedali siciliani sono una realtà sempre più all’ordine del giorno. Secondo un dossier stilato dalla federazione dei sindacati indipendenti Fsi-Usae «In totale 46 aggressioni fisiche negli ultimi cinque anni «senza considerare quelle che vengono tenute nascoste per paura di ritorsioni». Anche se a Catania si registra il maggior numero di casi in Sicilia, Palermo non fa eccezione. L’ultima aggressione denunciata dai sindacati risale al 2 dicembre scorso all’ospedale Di Cristina dove un’infermiera è stata minacciata con un coltello e malmenata. Ma Cgil, Cisl e Uil il 28 novembre scorso hanno reso noto un altro caso di aggressione all’ospedale di Partinico. Diverse anche quelle registrate all’ospedale Villa Sofia-Cervello: l’ultimo è accaduto sei mesi fa ma altri sono avvenuti –  sempre secondo il dossier –  il 5 maggio 2015, il 30 giugno 2014, l’1 e il 25 luglio 2014. 

«Il fenomeno è di grandi dimensioni e le motivazioni sono legate soprattutto alla congestione dei pronto soccorso – spiega Tiziana Maniscalchi dirigente medico del pronto soccorso del Villa Sofia, che da venti anni lavora a contatto con le emergenze – La riduzione dei posti letto e una situazione di overbooking, rallenta anche il lavoro e quindi è normale che questo crei disagi. I pazienti restano dentro anche tre o quattro giorni. Il pronto soccorso è diventato un imbuto da cui si entra ma non si sa quando si esce. Una situazione che è comune in tutta l’Italia». Un problema anche relativo alla scarsa vigilanza. «Con la spending review abbiamo subito la progressiva eliminazione dei presidi fissi delle forze dell’ordine. Non abbiamo più la presenza del carabiniere, non che da solo possa risolvere la situazione, ma funziona da deterrente. C’è soltanto un metronotte». 

Un altro fattore determinante nello scatenarsi delle situazioni di esasperazione che sfociano nelle aggressioni Maniscalchi lo individua nel «disagio dei pazienti» che deriva dalle «situazioni che non si riescono a risolvere, che non dipende solo dai quartieri dove gli ospedali si trovano, ma anche dal fatto che c’è carenza nell’offerta sanitaria e si chiede molto di più di quello che il pronto soccorso può dare». «Non siamo in grado – prosegue – di sostenere la richiesta di assistenza, abbiamo circa centomila accessi all’anno tra i due pronto soccorso di Villa Sofia e Cervello, una media di 400 al giorno». 

Sono i pronto soccorso di Villa Sofia e del Civico i più affollati. Un problema serio deriva dal fatto che «le persone arrivano in gruppo, spesso un’intera famiglia. Qui ci sono solo tre medici, sei infermieri e un metronotte. Le aggressioni verbali sono all’ordine del giorno. Ormai non ci facciamo nemmeno più caso anche se non dovrebbe essere così», sottolinea Maniscalchi. Un altro fronte della vicenda è quello dei concorsi. «Dobbiamo essere pronti a gestire situazioni professionali in emergenza e gestire il rapporto con le persone, e non è una cosa che possono fare tutti. Questo tipo di figura nelle strutture spesso viene a mancare perché senza concorsi il personale è spesso precario, a contratto, non è formato al meglio anche nella gestione di questo genere di eventi». Di contro «non c’è una legge che limiti l’età di chi può accedere al pronto soccorso e quindi abbiamo colleghi anche di più di 60 anni».  

Un sistema quindi che «cerca di sopperire a tutte  le carenze della Sanità chiude i reparti». Le aggressioni più frequenti spesso «derivano dalla richiesta disperata del posto letto. Un evento di una gravità estrema, non poter offrire il posto letto a gente che si trova da tre quattro giorni in pronto soccorso. Quando riusciamo a fare i salti mortali, ed è così nella maggior parte degli ambulatori, i pazienti restano meno di cinque giorni». La Sanità si è attrezzata quindi «con le aree di osservazione breve e con il reparto interno ovvero i posti tecnici indistinti», afferma. «Ogni mattina richiediamo i pasti per chi resta qui». In quanto alle aggressioni in senso stretto «abbiamo avuto diversi episodi. La più recente sei mesi fa quando un infermiere di triage è stato aggredito fisicamente: ha subito un tentativo di strangolamento, è stato preso per il collo e poi sbattuto contro il lavandino del triage. È dovuto rimanere a casa per quattro mesi». Tante volte – ricorda ancora  – è stata richiesta la presenza delle forze dell’ordine e «devo dire che sono stati sempre tempestivi, in pochi minuti arrivano almeno quattro volanti perché lo sanno che cosa può accadere. Ma questo non succede sempre. Abbiamo più volte chiesto il ripristino del presidio fisso. Ma le forze dell’ordine non hanno personale, tutto dipende dalle disponibilità economiche». 

Tutto questo stress ha causato anche, riferisce in ultimo Maniscalchi, l’insorgere di disagi psicologici tra il personale. «Noi affrontiamo questa situazione ma il burn out è sempre dietro la porta, molti di noi hanno sempre la sensazione di essere in pericolo cosa che genera uno stress emotivo sempre più frequente anche tra i giovani colleghi».


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