Una gara d’appalto e dei lavori avvolti da dubbi e incertezze. È questo il quadro generale che tracciano in aula i super consulenti dell’accusa nel processo scaturito dall’indagine sulla realizzazione di due tratti, oggi in fase di prolungamento, della metropolitana di Catania. Tre chilometri dal quartiere Borgo a quello di Nesima e la parte da piazza Giovanni XXIII – la stazione ferroviaria – fino alla centrale piazza Stesicoro. Tra gli imputati spicca il nome dell’avvocato Santo Campione, ex numero uno di Sigenco spa. Società all’epoca dei fatti capofila del consorzio d’imprese Uniter, vincitore dell’appalto.
«Per noi la gara andava resa nulla e rifatta, almeno secondo quanto stabilito dal bando per le modalità di consegna delle offerte – spiega l’ingegnere piemontese Luigi Maria Perotti -. La Commissione invece esaminò comunque le proposte e poi dispose l’affidamento. Questo è avvenuto per entrambe le gare con la stessa procedura». I vizi riguarderebbero però, a detta dell’esperto incaricato dalla procura di Catania, anche le certificazioni Iso. Una sorta di attestazione che viene rilasciata alle società private per sottoscriverne la competenza nella partecipazione a determinate gara d’appalto. «In questo caso ci sono state delle cose strane – puntualizza il consulente – le società non avrebbero potuto nemmeno partecipare alla gara».
Lo spazio centrale dell’udienza se lo riserva però Giovanni Barla, professore al Politecnico di Torino, considerato tra i massimi esperti italiani di geotecnica. La sua è una testimonianza lunga e dettagliata, in cui il magistrato Antonino Fanara passa al setaccio uno dei punti chiave dell’accusa: quello del presunto utilizzo di cemento di bassa qualità, oltre ai lavori di impermeabilità dei tunnel sotterranei e la collocazione, in maniera difforme rispetto al progetto, dell’attrezzatura utilizzata per il getto in opera delle campate.
Dalle analisi dei campioni di cemento sarebbe emerso «un valore di resistenza non corrispondente alla norma», spiega il tecnico. Che si sofferma poi sui numeri: «Il valore medio era inferiore al 15 per cento rispetto al progetto, nonostante ci sia comunque un valore di tolleranza. Nel tratto di viale Africa sottostante la strada – aggiunge – i calcoli relativi alla stabilità della galleria non sono stati fatti bene, in maniera discutibile. In caso di terremoto non saprei quanto possa reggere». Sulle possibili conseguenze di un sisma si era già espressa nelle precedenti udienze proprio l’accusa, che aveva chiesto il sequestro dei cantieri. Istanza che però non era stata accolta dal collegio della seconda sezione penale: «La consulenza tecnica – recitava l’ordinanza letta in aula dalla presidente Ignazia Barbarino – risale al 2009 ed è superata dal proseguimento dei lavori. Ci sarebbe bisogno di un nuovo approfondimento».
«L’interrogatorio dei consulenti – replica l’avvocato Tommaso Tamburino, difensore di Salvatore Fiore, direttore dei lavori della Fce – ha dimostrato, a nostro parere, la debolezza dell’impianto accusatorio. I consulenti, infatti, si sono contraddetti su alcuni dei passaggi fondamentali su cui si regge l’accusa e in particolare sulla differenza tra il valore del calcestruzzo previsto in progetto e quello da loro rilevato in sede di carotaggi, nonché sulla normativa cogente da applicare per il calcolo delle strutture – conclude il legale, riferendosi ad alcuni passaggi tecnici delle analisi sui campioni – Contiamo di chiarire tali contraddizioni con l’esame dei nostri consulenti».
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