«Nino, stiamo cominciando con il piede storto». Tra il gruppo di Paternò e il gruppo di Giarre non correva buon sangue. È quanto emerge dall’inchiesta Podere mafioso della Guardia di finanza di Catania che ricostruisce il complesso sistema di società, braccianti, reclutatori e professionisti che avrebbero avuto un ruolo in una maxi-truffa ai danni dello Stato. Ammonterebbe a quasi un milione e mezzo di euro la cifra ingiustamente erogata a circa 500 persone che, a seguito di false giornate lavorative dichiarate, avrebbero avuto accesso di diritto all’indennità di disoccupazione agricola che in realtà non sarebbe spettata loro. Un’organizzazione che, secondo gli investigatori, in più di una circostanza avrebbe scricchiolato. Per via di quei rapporti non proprio idilliaci tra Leonardo Patanè, 64 anni, accusato di essere uno dei promotori del gruppo giarrese assieme al 50enne Giovanni Muscolino, e Antonio Magro, 42 anni, originario di Randazzo ma presunto coordinatore dei paternesi. Tutti pregiudicati, con l’aggravante – gli ultimi due – di essere presunti componenti del clan Laudani.
«Gli dici – ordina Patanè a Magro – che non ci suca più la minchia. Il coso, contributivo… Gli devi dire: ascolta, non portiamo più tarantelle avanti e portano stasera i soldi di padre e figlio. Va bene?». «Va bene», replica Magro. «Se no, stiamo calando noi altri. Che già mi è gonfiata la minchia con questo, forza». L’oggetto del contendere sarebbero i soldi delle indennità che alcuni lavoratori avrebbero dovuto versare nelle casse del gruppo, che li avrebbe poi trattenuti per restituirne loro una parte. Ma i paternesi sarebbero stati in ritardo, costringendo Muscolino e Patanè ad arrivare alle minacce verbali. «In questo momento, se c’è qualcuno che si deve vergognare non siamo noi, Nardo», dice Muscolino a Patanè. «Sì, ma mi servono i soldi, Giovanni», replica quello. «Tu puoi stare tranquillo, Leonardo – risponde Giovanni Muscolino intercettato – Queste cose verranno tutte sistemate. Onestamente, non sono cristìani che possono parlare per il nostro modo di pensare. Perché noi altri, quando c’è qualcosa, ci mettiamo a disposizione. Evidentemente non è per tutti allo stesso modo».
In realtà, secondo gli investigatori, le antipatie «più personali che professionali» vengono risolte con l’obiettivo del bene comune. Così non solo viene spiegato ai paternesi come telefonare al call center nazionale dell’Inps fingendosi i braccianti per essere certi della data in cui verrà effettuato il pagamento, ma viene anche mostrato loro come avere la certezza dell’avvenuto versamento del contributo da parte dell’ente pubblico, attraverso le attestazioni degli estratti conto o, meglio ancora, la collaborazione di un dipendente interno all’Istituto nazionale di previdenza sociale. Unici metodi sicuro, questi ultimo, per evitare errori. Come quello ai danni di un finto lavoratore di Paternò «ammazzato di botte» perché si credeva che avesse percepito la disoccupazione che, invece, non gli era ancora stata erogata.
Secondo gli inquirenti, a Giarre a occuparsi di comunicare i dati sui lavoratori assunti a Leonardo Patanè e a suo figlio Orazio, anche lui coinvolto (e pure lui assunto come bracciante nei campi solo che, dice il padre, «giustamente soldi da mio figlio non me ne prendo»), sarebbe stato il dipendente dell’ufficio Inps ionico Filippo Bucolo, incensurato, adesso finito agli arresti domiciliari. «Leonardo, vedi che quella è stata liquidata il 16, va bene? – dice Bucolo al telefono – La signora i soldi li ha presi». Informazioni che, da procedura, dovrebbero essere comunicate solo ai diretti interessati o ai lavoratori dei Caf con l’apposita delega, ma che invece il lavoratore avrebbe dato anche a chi non ne aveva alcun diritto. In cambio, secondo i magistrati, di alcuni pagamenti in denaro. Assegni che sarebbero stati scambiati e postdatati e che avrebbero costituito un compenso per l’aiuto. «Questo ci sta andando a trasere a trasere», avverte Orazio Patanè. Il meccanismo, però, si inceppa: a maggio 2015 cambia il direttore dell’ufficio: «Ascoltami, Leonardo, ora vedi che c’è un nuovo direttore. Questo qua è un po’ così – sostiene Filippo Bucolo – È tutto fermo».
Chi invece non avrebbe avuto timore ad alzare la posta in gioco è un altro professionista coinvolto nell’inchiesta, il ragioniere incensurato Alfio Lisi, che si sarebbe occupato – secondo i magistrati – sia dell’iscrizione delle presunte aziende fittizie alla Camera di Commercio sia della realizzazione di finte buste paga, su impulso dello stesso Patanè. Il quale avrebbe pagato 1800 euro per il software che avrebbe permesso a Lisi di rendere più veloce la realizzazione dei certificati di pagamento fasulli. «Io gli ho dato i soldi per andarsi a prendere a Catania il programma per fare i Cud e le buste paga – racconta Patanè mentre gli investigatori sono in grado di ascoltarlo – Ora, come lui non glieli fa ai cristìani, io la testa prende e gliela apro, compare, giusto?». In base alla ricostruzione degli inquirenti, Lisi sarebbe perfettamente consapevole dell’importanza del suo ruolo professionale e, per questo, chiederebbe sempre più soldi al gruppo criminale. «Cosa vuoi ancora, Alfio? Quant’è che vuoi ancora? – si esaspera Patanè – Vedi che ti ho dato 800 euro nel giro di una settimana».
A gennaio 2015, Lisi mette un punto: «Definiamo prima queste cose, che ne parlavamo questa mattina. Se no, io non vado avanti». «Io ti ho detto: ti devi prendere questa macchina? Ti devi fare dare i soldi? Che devi fare? Dimmelo tu». La macchina è l’opzione scelta dal ragioniere. Non ci sarebbero limiti di prezzi o modelli: «Quanto ci vuole… Questo qua poi ce la vediamo noi». Basta andare in concessionaria e vedere cosa c’è. Lo stesso giorno, il titolare del negozio di auto viene avvisato dal 64enne giarrese dell’imminente arrivo del suo «consulente». «Vedi che macchina vuole e ti metti d’accordo, che poi per il pagamento me la sbrigo io, va bene?». Nonostante questa intercessione, però, le richieste di Lisi non si sarebbero placate. «Quel gran figlio di puttana, cornuto e sbirro – si sfoga Leonardo Patanè con la moglie, Daniela Wissel, pure lei coinvolta nell’inchiesta – Anche i 15 euro mi ha azziccato, questo gran guardia che non è altro. A questo lo devo ammazzare io, questo bastarlo. Si è fatto pagare il timbro, lo hai capito?».
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