Piazza Risorgimento, danneggiato l’altarino per La Fata La nipote: «È una minaccia diretta ma non ci fermiamo»

«È una minaccia diretta, non ci sono dubbi». Veronica è la nipote di Salvatore La Fata, l’ambulante ed ex operaio edile che si è dato fuoco lo scorso 19 settembredopo un’operazione antiabusivismo della polizia municipale di Catania. Suo zio è morto il 30 settembre, dopo undici giorni di agonia, a causa delle gravi ustioni riportate sul 60 per cento del corpo. «Era un angelo quando era vivo, chi può avercela con lui adesso che non c’è più?», si chiede la giovane. Davanti a lei, il vetro spaccato dell’altarino dedicato a La Fata in piazza Risorgimento, proprio nel punto in cui lui si è versato addosso la benzina. Secondo il racconto di un testimone, intorno alle 12 di questa mattina un uomo con un vespone scuro — «Non ho visto bene se blu o nero» — avrebbe accostato il ciclomotore lì davanti, «poi è sceso, ha dato un calcio al vetro, è risalito sul motorino ed è andato via». Un gesto durato pochi secondi, che arriva tre giorni dopo che, accanto a quella casetta di vetro piena di fiori, la famiglia La Fata ha fatto posizionare una lapide, non autorizzata, che recita: «In memoria del lavoratore Salvatore La Fata, vittima dell’indifferenza delle istituzioni».

Il riferimento dell’iscrizione è a quell’indagine della procura etnea, aperta dopo che i familiari del fruttivendolo abusivo hanno presentato una denuncia che accusa i vigili urbani di omicidio colposo e omissione di soccorso. Secondo alcuni presenti, quando Salvatore La Fata ha minacciato di darsi fuoco qualora gli fosse stata sequestrata la merce in vendita (20 euro di olive e cipolle), gli operatori delle forze dell’ordine gli avrebbero risposto: «Sì, ma spostati più in là». «Che male può fare un altare? Ce ne sono tantissimi in giro per Catania, perché se la sono presi proprio con il nostro? — continua Veronica — Solo un male può fare: ricordare che ci sono degli accertamenti in corso e che noi vogliamo arrivare fino in fondo. Non ci fermiamo neanche davanti a questo, e andiamo a denunciare i danneggiamenti». La lapide, però, non è stata autorizzata dal Comune etneo e lì, all’interno di un’aiuola pubblica, non dovrebbe starci: «È un simbolo di quello che è stato — prosegue la ragazza — Mio zio non era figlio di nessuno, era una persona onesta ed è morto come un cane. Ci sono mafiosi che hanno avuto fini più dignitose della sua, che bruciava mentre i vigili lo guardavano senza fare niente. La sua unica colpa era di tentare di portare a casa il pane per la sua famiglia. Adesso noi gli dobbiamo almeno questo: che sia fatta giustizia».

Mentre parla, dall’autobus che fa la sua sosta alla fermata piazza Risorgimento ovest, scende un giovane residente nella zona. Si avvicina all’altarino, si fa il segno della croce e prosegue. «Lo faccio tutti i giorni — racconta — Lo vedevo montare e smontare con la cassetta della frutta, quand’è morto m’ha fatto una gran pena». Nota il vetro rotto: «Chi è stato?», chiede ai membri della famiglia La Fata fermi sul marciapiede. «Non lo sappiamo», risponde Sergio La Fata. «Abbiamo chiesto all’avvocato di informare il procuratore, magari stavolta acquisiscono il filmato delle telecamere in tempo e riescono a prendere la targa del vespone». «Quale pazzo arriva, accosta, scende, dà un calcio e se ne va?», si chiede Alfia Poli, vedova di Salvatore La Fata. «È un’offesa morale per noi familiari — sostiene la donna — Uno scempio simile si giustifica solo pensando che l’iscrizione della lapide ha dato fastidio a qualcuno. Perché l’altare è là da due mesi e nessuno l’ha mai toccato. La scritta, invece, c’è solo da sabato, e guardate cosa hanno fatto».


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