Palazzo Hernandez, la storia dal 1890 «Tornerà presto all’aspetto originario»

«Quel palazzo è un pezzo della storia della mia famiglia, parte del nostro patrimonio». Orazio Torrisi è, assieme a sua sorella e a un cugino, uno dei tre proprietari di metà di Palazzo Hernandez. Nello specifico di due piani di circa 450 metri quadrati ciascuno, che aspettano dal 2005 una restauro che dovrebbe durare poco più di un anno. «Fino a una decina di anni fa, lo stabile era abitato dai nostri inquilini, poi lo abbiamo liberato perché avevamo presentato un progetto di ristrutturazione alla Soprintendenza, che era poi stato approvato». Ma l’edificio era diviso tra tanti cugini, l’accordo non si è trovato e i lavori sono saltati. «Il degrado del palazzo è quello di dieci anni di inutilizzo, che speriamo di interrompere a breve».

Un bisnonno amministratore, l’altro capitano di navi da lunghe navigazioni e armatore con tanto di medaglia al valore civile, un altro ancora rettore dell’università di Catania (Pietro Delogu), un nonno noto avvocato, il fratello della nonna direttore dell’accademia di belle arti di Venezia, e un padre avvocato, ufficiale dei Granatieri di Sardegna, segretario di partito ad Acireale durante il ventennio mussoliniano e responsabile dei gruppi universitari fascisti: la storia della famiglia di Orazio Torrisi si intreccia con quella d’Italia e di Catania. E dei suoi edifici storici. Era il 1890 quando Palazzo Hernandez, con annesso scalone porticato progettato da Gian Battista Vaccarini, venne venduto e diviso in due parti. Quella della marchesa di Sant’Alfano, della famiglia Francica-Nava, che ne aveva acquistato la parte posteriore; e quella di Giuseppina Iacona, che ne aveva comprato la parte anteriore, con vista su piazza Duca di Genova. «Quest’ultima era la mia bisnonna e moglie del Capitano di Lungo corso – ricorda Torrisi – Fu lei a far costruire, a cavallo col Novecento, la parte di palazzo che dà su via Landolina». Dalla signora Iacona, il palazzo è passato alle tre figlie, e dalle tre figlie direttamente ai numerosi nipoti.

«I beni della marchesa di Sant’Alfano erano amministrati dal mio bisnonno prima, e da mio nonno poi». Fu la nobildonna, negli anni Sessanta, a manifestare «l’intenzione di vendere la sua parte dalla struttura ridotta in precarie condizioni, quella che dà su via San Tommaso, proponendola a mio nonno». Il prezzo di vendita era di quattro milioni di lire: «Una sciocchezza». «Mio nonno scelse di non comprare per fugare qualsiasi dubbio che avesse potuto trarre vantaggio dalla sua condizione di amministratore, acquistando ad un prezzo tanto basso», continua Orazio Torrisi. L’affare si concluse poco dopo: «Il palazzo venne venduto e sventrato per essere ricostruito in cemento armato, a eccezione dei muri esterni». I proprietari successivi furono una congregazione di suore «che si occupavano di preparare ostie e paramenti sacri», e tre privati che posseggono altrettanti appartamenti all’interno del palazzo. «Una decina di anni fa, le suore hanno venduto agli attuali proprietari, che poi sono quelli che affittano all’ateneo etneo».

Nel racconto dell’erede non ci sono le armi e la droga che lì, secondo il tecnico archeologo Iorga Prato, sarebbero state abusivamente nascoste tra gli anni Sessanta e Settanta: «Lo smentisco, io stesso in quel periodo andavo a giocare all’interno della parte diroccata della proprietà dei Francica-Nava», puntualizza l’uomo. Che aggiunge: «Inoltre, a oscurare lo scalone vaccariniano non c’era nessun garage, bensì un casotto che è stato rapidamente smontato diversi anni fa».

Per tutto il resto del palazzo, è dai primi anni del 2000 che la situazione non cambia. I progetti, però, ci sono. Le carte parlano di «Lavori di manutenzione straordinaria e miglioramento antisismico». «La nostra idea è quella di ripristinare la struttura originaria di Palazzo Hernandez così com’era stata pensata – spiega Torrisi – A parte lo scalone vaccariniano, dal quale speriamo di rimuovere il muro di mattoncini che lo divide in due, non ci sono elementi di pregio: né stucchi, né strutture particolari, anche le volte sono piuttosto semplici». Secondo la ditta che dovrebbe eseguire il restauro, «i lavori dovrebbero essere finiti in un anno e mezzo». Per farne cosa? «Abbiamo cercato, in questi anni, gli interlocutori giusti per usarlo come museo o qualcosa del genere, ma è difficile, il Comune non ha soldi e le biblioteche non sono interessate». Probabilmente, saranno fatte delle botteghe. D’altronde, «in questo momento storico, considerando l’Imu, tenerlo improduttivo è impensabile»

Luisa Santangelo

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