«Pochi mesi dopo il delitto, Riina aveva messo Badalamenti fuori Cosa nostra», racconta l’ex boss Di Carlo. Ma per il fratello del militante «sono frasi che non si possono mai capire bene fino in fondo». Restano i dubbi, l’amarezza e un casolare che cade a pezzi
Omicidio Impastato, Peppino si sarebbe potuto salvare? «Se si perdeva altro tempo, capace che era ancora vivo»
Sono passati quasi 41 anni dall’omicidio di Peppino Impastato, il militante di Cinisi ucciso da Cosa nostra nel 1978. E solo oggi Francesco Di Carlo, ex uomo d’onore della famiglia mafiosa di Altofonte, racconta che forse quel delitto avrebbe potuto anche non accadere mai. «Se per un motivo o per un altro si fosse perso tempo, capace che Peppino Impastato era ancora vivo, perché dopo pochi mesi Badalamenti non era più in Cosa nostra, era circolata l’ennesima infamità su di lui, e Riina dopo 20 anni che lo odiava lo aveva fatto mettere fuori Cosa nostra». Questo il racconto del pentito, che ha parlato davanti ai magistrati al processo per calunnia aggravata in corso a Caltanissetta a carico dei poliziotti Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Tra i tanti argomenti ripescati fuori dalla memoria in oltre quattro ore di racconto, c’è anche il delitto di Cinisi.
E il suo racconto parte in automatico in risposta a una domanda ben precisa del pubblico ministero, Gabriele Paci: «Ha mai conosciuto Antonio Subranni?». È a lui che nel’78, in qualità di comandante del reparto operativo del gruppo di Palermo, spetta la direzione esclusiva delle indagini per la morte del militante trovato dilaniato sui binari della ferrovia a Cinisi. Ed è sempre lui che, senza troppi dubbi, il 26 giugno ’78 scrive nero su bianco in una nota che «Impastato si è voluto suicidare in modo eclatante e cioè legando il suo nome a un attentato terroristico». Non vaglierà mai nessun’altra pista. Di Carlo riflette per qualche secondo, poi risponde palesando sicurezza: «Sì, un nome e un volto che conosco. Era maggiore all’epoca, credo. Abitava in viale Strasburgo, si era comprato o affittato un appartamento in un palazzo che aveva costruito un parente di mio fratello Andrea». La vedova di Paolo Borsellino, poco dopo la strage di via d’Amelio, aveva dichiarato che il marito poco prima dell’attentato aveva fatto in tempo a parlarle proprio di Subranni, dicendole che fosse punciuto. Accusa che lui ha sempre respinto.
«Più che con Cosa nostra, i rapporti lui li aveva con Nino Salvo, io l’ho conosciuto da lui», dice oggi Di Carlo, tirando in ballo il vice capo della famiglia mafiosa di Salemi, che negli anni ’60 aveva ottenuto l’appalto per la riscossione delle tasse a Palermo insieme al cugino Ignazio Salvo con l’aiuto del parlamentare della Dc Salvo Lima. È nell’ufficio di quest’ultimo che Di Carlo vede di nuovo Subranni: «Io lì ci andavo spesso, ne ho incontrati molti che facevano la fila per farsi raccomandare politicamente». E tornando al delitto Impastato, quasi si vanta di aver contribuito alla riapertura delle indagini, 18 anni dopo. «Io sapevo perché era stato fatto tutto in fretta e furia, chiudendo il caso come suicidio. Impastato era una famiglia mafiosa di Cinisi, come lo era quella dei Badalamenti e dei Palazzolo. Una famiglia con un figlio che nasce con idee comuniste, per quella mentalità di quegli anni voleva dire comunista uguale terrorista. Lui attaccava Cosa nostra, pur essendoci nato, eppure aveva studiato, era uscito con le sue idee, e se le teneva per lui in un paesino di seimila abitanti, cominciando poi a parlare in giro con un microfono con cui chiamava Badalamenti Tano Seduto». Impastato inizia a prendere in giro quella mafia che altrove era tanto rispettata e temuta, e la sbeffeggia parlando soprattutto dai microfoni di Radio Aut, nella vicina Terrasini. E di fastidio ne dava molto.
«Però non lo potevano ammazzare, perché ammazzarlo significa farsi la guerra fra di loro oppure togliere potere a tutta la famiglia Impastato – continua Di Carlo – Allora bisognava farlo sparire, hanno pensato di sfruttare il fatto che avesse quelle idee, che fosse comunista, che all’epoca si pensava subito al terrorismo e agli attentati. Quindi lo hanno prima ucciso e poi legato sui binari per farlo saltare in aria. E io sapevo chi era stato e il motivo. Badalamenti e Nino Salvo erano intimissimi: quest’ultimo, tramite chi comandava il gruppo che indagava, ha fatto fare quell’indagine in quel modo, chiusa poi in quella maniera nel ’78».
Ma la sua ricostruzione non convince fino in fondo Giovanni Impastato, fratello di Peppino: «Di Carlo è sicuramente un personaggio che con le sue dichiarazioni ha contribuito molto, questo è innegabile, ma frasi come questa, “potrebbe essere ancora vivo”, sono da prendere un po’ con le pinze, sono frasi che non si possono capire mai bene fino in fondo». Questa rimane una parentesi, per lui, un tuffo in un passato lontano quasi 41 anni, un’alternativa che forse non sa neppure immaginare oggi. Resta l’amarezza di un dato di fatto, quello di aver depistato sin dall’inizio le indagini sull’omicidio di Peppino. «C’è stata la prescrizione ed è finito tutto così – dice Impastato – Sono rimasti troppi misteri. Non si è mai fatta piena luce su tanti aspetti». E a restare aperta è anche la questione del casolare di contrada Feudo, ribattezzata via 9 maggio 1978, all’interno del quale Peppino fu ucciso. Di recente è stata inviata una lettera al presidente della Regione Musumeci, all’assessore dei Beni culturali Tusa, al sindaco di Cinisi Palazzolo e, per conoscenza, è stata recapitata anche al procuratore nazionale antimafia De Raho, al presidente della commissione regionale antimafia Fava. Un appello sullo stato in cui versa oggi quel che resta dell’edificio, di proprietà della famiglia Venuti.
«Non c’ha risposta nessuno – rivela sconfortato Impastato -. Fatta eccezione per il sindaco di Cinisi, che ci ha riferito che se non se ne vuole occupare nessuno del casolare, allora lo farà lui. Facendo passare la faccenda dell’esproprio quindi dalla Regione al Comune; ma finora non si è fatto niente». Un tasto dolente, che viene a più riprese ribadito anche nella lettera inviata dal fratello di Peppino. «In tutti questi anni come risposta alle nostre richieste abbiamo ricevuto solo chiacchiere e nessuna concretezza. Il 9 maggio del 2014 il presidente della Regione Siciliana Crocetta, accogliendo parte delle richieste, dopo una petizione popolare, consegna il provvedimento di vincolo promettendo che a breve ci sarebbe stato l’esproprio che avrebbe consegnato il luogo alla collettività. Il governatore ha consegnato al sottoscritto la copia della delibera durante la visita al casolare, in contrada Feudo. Da quel momento il silenzio, nessun risultato positivo, solo promesse e prese in giro».