Una latitanza nel lusso e nel benessere, spesso trascorsa con la moglie in gravidanza e i quattro figli, tra continui spostamenti e pizzini. Due anni e un mese da ricercato tra i più pericolosi d’Italia gestendo gli affari e passando il tempo a mantenersi in forma con pesi e guanti da boxe. E un finale nel carcere di Bicocca, in attesa di un probabile trasferimento al 41bis fuori dalla Sicilia. Ecco il riassunto della latitanza di Andrea Nizza, boss mafioso di Librino arrestato ieri dai carabinieri del comando di Catania. Quando i militari lo hanno preso si è lasciato andare a quello che ormai sembra essere un classico scambio di convenevoli tra ricercati e forze dell’ordine: «Siete stati bravi, sapevo che non sarebbe stato facile trovarmi». L’emergente della mafia etnea l’ultima parte della sua fuga l’ha trascorsa a Viagrande. In una villetta di due piani a ridosso della strada provinciale 43 nei pressi di parco Monte Serra. Un covo dotato di tutti i confort che gli era stato preso in affitto da Mario Finamore e Amalia Agata Arena. Una coppia di coniugi incensurati, senza vincoli di parentela con Nizza, originari del viale Grimaldi nel quartiere Librino. «Lui si occupava soltanto di stipendiarli per fargli da prestanome», spiega il colonnello dei carabinieri Francesco Gargaro. I due incensurati si sono occupati di prendere la villetta in affitto per il ricercato, tramite un’agenzia immobiliare online. Adesso dovranno rispondere del reato di favoreggiamento aggravato dall’avere favorito la mafia.
Al momento dell’arresto, a fare compagnia al latitante c’erano anche la
moglie in gravidanza e i due figli più piccoli. Gli altri due, più grandi ma non ancora maggiorenni, mancavano da alcuni giorni perché tornati a scuola. Il boss, specializzato nel narcotraffico di droga con Albania e Grecia, avrebbe comunicato con l’esterno soltanto attraverso una fitta rete di pizzini, affidati ai suoi visitatori e diretti ai suoi uomini. «Non usava il telefono e non incontrava nessuno», spiega il procuratore capo Carmelo Zuccaro. Il magistrato, visibilmente soddisfatto per l’operazione portata a termine nel fine settimana, esclude che per arrivare a Nizza ci sia stato l’aiuto dei collaboratori di giustizia. Categoria a cui appartiene Fabrizio Nizza, fratello dell’ormai ex latitante, che dal 2015 ha tradito Cosa nostra. Non è del tutto chiaro quindi come i militari siano arrivati al fratello: «Abbiamo avuto un riscontro che inizialmente sembrava poco interessante, ma che poi si è dimostrato decisivo», taglia corto Gargaro. «Più volte gli siamo arrivati vicini, abbiamo trovato il covo ancora caldo, ma non lui, purtroppo», sospira la magistrata Agata Santonocito.
Perché la villetta etnea non è stato l’unico posto scelto da Nizza per trascorrere la latitanza. In questi due anni il 30enne si è mosso molto, non solo in provincia in Catania. «Non sappiamo da quanto tempo era a Viagrande, il contratto era registrato da mesi», continua Santonocito. Bocche cucite sulle altre mete della latitanza, «perché le indagini sono ancora in corso». Nella casa dove i carabinieri hanno fatto scattare le manette c’erano un sacco da boxe, una cyclette, un paio di guantoni e diversi dischi in ghisa utilizzati per fare pesi. Tutti strumenti che Nizza avrebbe utilizzato per coltivare una delle sue passioni. Niente armi né droga, invece, nella casa scelta dal ricercato.
Andrea Nizza adesso si trova rinchiuso nel
carcere di Bicocca. Ma lì è solo di passaggio in attesa, domani mattina, del primo interrogatorio in cui sarà chiamato a rispondere delle cinque indagini a suo carico. Sulle sue spalle pesano svariate condanne, non ancora definitive, per omicidio, lesioni, traffico di droga e associazione mafiosa. Con ogni probabilità, dopo le eventuali risposte scatterà il trasferimento. Per lui sarebbe già pronta la richiesta di applicazione del carcere duro, da scontare in penitenziari fuori dalla Sicilia, a esclusione di quello di Sassari dove si trova detenuto il fratello Daniele. Uno dei sei fratelli Nizza: cinque in carcere – oltre ad Andrea, Daniele e Fabrizio ci sono Giovanni detto banana e Salvatore detto mpapocchia – e uno solo, «la mosca bianca» secondo i carabinieri, lavoratore incensurato.
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