«Non sono uno scafista, mi hanno obbligato gli organizzatori del viaggio a pilotare il barcone». Si è difeso così Haj Hammouda Radouan, tunisino di 23 anni e ritenuto il comandante del peschereccio che ha fatto naufragio il 12 maggio scorso nel Canale di Sicilia, causando la morte di almeno 17 persone. L’uomo, al momento in custodia cautelare nel carcere di piazza Lanza, è indagato per immigrazione clandestina e omicidio plurimo volontario, reati per i quali è gravemente indiziato, secondo le prove raccolte dalla Procura della Repubblica di Catania. «Io avevo pagato per partire ma mi hanno puntato la pistola contro e mi hanno minacciato di morte», ha dichiarato il giovane secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Ansa.
L’uomo ha anche fornito anche una sua versione sul naufragio: alcuni passeggeri si sarebbero seduti su un tubo nel quale passava acqua prelevata dal mare per il raffreddamento del motore che, non reggendo il peso, «si rotto, causando l’allagamento del barcone». Poi, i movimenti improvvisi dei passeggeri avrebbero fatto oscillare l’imbarcazione che si è rovesciata. Secondo la tesi degli inquirenti, il giovane avrebbe invece provocato l’avaria appena arrivato in acque internazionali, alla vista di un natante straniero che li avrebbe potuti soccorrere. Sarebbe stato lui, sostiene l’accusa, a intimare ai migranti a bordo di gridare aiuto per attivare l’intervento di un mercantile.
L’altro uomo arrestato, il marocchino Hamid Bouchab di 23 anni, ha spiegato invece di essere stato un passeggero che, come tanti a bordo, avrebbe saltuariamente aiutato Haj Hammouda Radouan eseguendo le indicazioni che riceveva, anche sotto forma di intimidazione. A sostegno della sua tesi il giovane ha chiesto di sentire suoi connazionali conosciuti durante il viaggio che erano accanto a lui durante la traversata, anche nel momento della tragedia. Sulle cause del naufragio il marocchino ha spiegato di non sapere cosa sia successo, ma che la barca si è riempita d’acqua e poi si è capovolta.
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