«Un ragazzo che ha provato a scappare è stato fermato, lo hanno portato in una stanza al primo piano. Quando è uscito non si reggeva sulle gambe ed è svenuto. Proprio in quel momento, mentre era privo di sensi, gli hanno preso le impronte. Usavano la violenza anche contro le donne. Un marito ha preferito lasciarsi identificare, per evitare che la moglie incinta venisse picchiata». Rasheed ha 24 anni, è fuggito dal campo profughi palestinese di Yarmouk, quartiere di Damasco, un giorno di agosto. Scappato due volte, nonostante la sua ancora breve vita: dal suo paese di origine, Nablus, in Palestina. E dalla sua patria acquisita, la Siria, dove ha sempre vissuto. Ha viaggiato per 36 giorni: da Damasco al Libano, quindi in Egitto, fino ad arrivare su un mercantile battente bandiera maltese al porto di Catania, la notte del 17 settembre. «Pensavamo di avercela fatta, invece in Sicilia abbiamo trovato un nuovo esercito», ricorda Rasheed, che per dieci giorni è rimasto detenuto al Palacannizzaro insieme ad altri 168 connazionali. Quindi venerdì della scorsa settimana è riuscito a scappare. «Eravamo in 14, era notte, abbiamo scavalcato e ho cominciato a correre più veloce che potevo. Una ragazza si è fatta male, ma ce l’abbiamo fatta».
Insieme a lui, seduti al tavolino di un bar, ci sono Ahmed e Mohammed, entrambi poco più che ventenni. Evasi pure loro, si mischiano tra i tanti mediorientali che vivono da tempo a Catania. Difficile individuare ad una rapida occhiata la loro origine, la loro storia. Mohammed sembra addirittura un turista del nord Europa: occhi azzurri, capelli biondi, i tratti del viso nordici. Sono rimasti solo pochi giorni nel capoluogo etneo, prima di riprendere il loro viaggio della speranza. Ahmed e Rasheed sono coetanei, entrambi studiavano economia all’università di Damasco. «Ma la rivoluzione ci ha cambiato la vita – raccontano – E’ iniziato tutto con manifestazioni pacifiche, che l’esercito ha subito represso con smisurata violenza. Dopo i primi sei mesi, ci siamo ritrovati in una guerra combattuta con le armi». Impossibile rimanerne estranei. «Ho cominciato a fare il reporter – spiega Rasheed – Cercavo di documentare come entravano le persone nelle carceri e come ne uscivano, le torture, gli arresti indiscriminati. Il campo di Yarmouk, dove vivevo, è stato bombardato ferocemente dall’esercito regolare. Un giorno hanno lanciato un razzo da terra e ho ripreso tutto con la videocamera. Ho partecipato ad una diretta televisiva dell’emittente Akhbar Al Aan, degli Emirati Arabi. Dopo essere apparso in tv, sono iniziati i problemi con il regime per me e la mia famiglia».
Per raggiungere l’Italia servono tanti soldi. «Circa settemila euro», sottolinea Rasheed. Per pagare gli scafisti egiziani e per comprare i permessi dei poliziotti all’aeroporto e di quelli alla frontiera. «Abbiamo lasciato la Siria vendendo case, macchine e l’oro che avevamo. Sapevamo che questo era un viaggio di morte, in continuazione i nostri parenti ci ricordavano che avremmo potuto perdere la vita in mare. Ma se fossi rimasto, sarei morto lo stesso».
La prima notte al Palacannizzaro è un lungo braccio di ferro tra la polizia e i migranti che si oppongono all’identificazione. «I tentativi vanno avanti dalle due fino alle sei del mattino – ricorda Rasheed – Prendono le impronte solo ai primi tre bambini. Tutti gli altri, una volta capita la situazione, si rifiutano». Una resistenza ostinata che dura per giorni. I siriani non vogliono fare richiesta di asilo politico in Italia, ma la Convenzione di Dublino – che da gennaio 2014 subirà delle rilevanti modifiche – impone di presentare la domanda nel Paese di primo approdo. I tre giovani siriani mostrano dei segni rossastri sulla pelle, come grosse punture di zanzara. «Si sono diffuse malattie della pelle, quell’impianto non è adatto per far stare così tante persone insieme». Un medico di turno in quei giorni conferma che alcuni migranti sono stati portati al pronto soccorso per casi sospetti di scabbia, non confermata dopo gli accertamenti. Mentre tra i ricoverati c’è stata anche una bambina sulla sedia a rotelle che soffriva di epilessia. Per lei fortunatamente nessuna crisi in quei giorni, ma un ricovero per problemi intestinali. «Avevamo a disposizione un’ora al giorno per le docce, spesso gli uomini non arrivavano a farla perché donne e bambini avevano la precedenza. Ma quando chiedevamo di andare in ospedale ci veniva risposto: “Solo dopo aver lasciato le impronte”». Ogni migrante era un numero. Quello che avevano tatuato sul polso. «Ci sentivamo un gregge, anche tra di noi ci chiamavamo per numero, non avevamo più un nome».
Il giovane siriano racconta di una stanza al primo piano del palazzetto dello sport dove venivano portati separatamente i migranti per l’identificazione. «Ho visto un uomo uscire con un braccio dolorante, perché glielo avevano piegato, e un altro con segni di percosse sul corpo. Ma c’erano anche poliziotti che ci hanno aiutato con umanità». I buoni e i cattivi. «Uno di loro, che aveva circa 55 anni, è mancato per qualche giorno. Quando è tornato era molto arrabbiato, gli abbiamo chiesto il motivo e lui ci ha risposto: “Perché non volevo trovarvi ancora qui”. Lui ed altri ci compravano le sigarette, le mettevano in sacchetti neri e ce le passavano. Le pagavamo il prezzo giusto, nessuno ha provato a guadagnarci». Rasheed racconta, invece, di un accordo quasi raggiunto tra un poliziotto e un migrante, Awed, per evadere senza farsi identificare. «Duemila euro per due persone, era questa la cifra che avevano pattuito. Awed ha provato a corromperne tanti, ma solo con uno il discorso è andato avanti. Quando ne parlavano, si allontanavano a fumare, ma alla fine il poliziotto ha avuto paura e non se n’è fatto niente. Dopo qualche giorno Awed è scappato lo stesso».
Alla domanda se la loro è stata una fuga o se li hanno lasciati andare, Rasheed, Ahmed e Mohammad sorridono. «Un proverbio siriano dice: non tutte le dita di una mano sono uguali». Parlano di una sorta di trattativa negli ultimi giorni, quando la stanchezza, da entrambe le parti, cominciava a prevalere. «L’accordo era che ci avrebbero portato in ospedale, da dove saremmo poi scappati. Ma a decidere chi poteva andare era un medico. Quando è arrivato il nostro turno, ha detto che non c’erano le condizioni, quindi siamo stati costretti a fuggire. Ma altri ce l’hanno fatta scappando anche dalle ambulanze, ancora prima di arrivare in ospedale».
Un racconto che il questore Salvatore Longo smentisce categoricamente. «Sono cose che non stanno né in cielo, né in terra». Secondo i dati in suo possesso, gli evasi sarebbero una decina, solo nei primi giorni di detenzione. Ma soprattutto il questore nega ogni episodio di violenza. «Se ci fossero stati davvero, non avremmo perso tutto questo tempo per l’identificazione. Anzi, c’è stato un buon rapporto con i rappresentanti scelti dai migranti. Dato che avevano notizie fantasiose sui Cara, una donna è stata accompagnata a Mineo per conoscere la struttura. Tornata al Palacannizzaro, ha cercato di convincere i suoi connazionali a lasciarsi identificare». Quanti hanno ceduto? «Sei o sette in quel caso». Longo, inoltre, sottolinea la presenza di altre componenti estranee alle forze dell’ordine: «Associazioni e mediatori culturali».
Ma anche su quest’ultimo punto i siriani non sono d’accordo. Parlano di «interpreti poco neutrali che ci minacciavano e di avvocati che ci informavano solo delle procedure per chiedere asilo in Italia». Mentre i rappresentanti dell’Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, si sarebbero dichiarati impotenti di fronte a quello che stava succedendo.
«La nostra speranza adesso è riuscire a vivere un anno di tranquillità, non vogliamo essere un peso per nessuno. Dovunque saremo, continueremo ad aiutare la nostra causa». Il sogno di Rasheed è sposarsi con la sua ragazza che si trova in Libano e andare in Australia. «Per ora ci sentiamo al telefono tutte le sere prima di andare a letto. Cerco di addormentarmi con la sua voce nella testa, in modo da sognare lei e nient’altro».
[Ha collaborato Sanaz Alishahi]
[Foto di Testaocroce]
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