Si avvicina alla conclusione il processo a carico di quindici migranti accusati di aver gettato in mare, durante la traversata dell’aprile 2015, alcuni compagni di bordo spinti dall’odio religioso. I legali oggi hanno ripercorso punto per punto tutte le incertezze emerse nei mesi, smontando soprattutto l’attendibilità dei sei testimoni che li accusano
Migranti annegati, le conclusioni della difesa «La religione non c’entra, fu lotta per salvarsi»
«Ho provato a mettermi idealmente su quel gommone, a immaginare quello scenario di morte senza acqua né cibo né benzina. Chiedo anche a voi di salirci idealmente insieme a me». È con queste parole che si rivolge alla corte Lorenzo Marchese, legale di Kamarà Osman, uno dei quindici imputati per omicidio plurimo con l’aggravante dell’odio religioso. I fatti risalgono all’aprile del 2015, quando la nave battente bandiera panamense Ellensborg salvò da morte certa nel canale di Sicilia 95 migranti a bordo di un gommone quasi inabissato. Già al porto di Palermo sei superstiti indicarono e isolarono i quindici imputati, accusandoli di aver volontariamente gettato in mare durante la traversata nove migranti, per via della loro fede cristiana. Oggi le conclusioni di tre avvocati difensori, pronunciate nell’aula bunker dell’Ucciardone. Marchese mette subito in guardia: «Gli schemi mentali di questi ragazzi sono diversi dai nostri, dobbiamo imparare a ragionare come loro». Il legale, però, parte avvantaggiato per via dei molti mesi passati in Africa nel 2010. È grazie alla sua esperienza personale che riesce a interpretare molti atteggiamenti mostrati durante il processo da imputati e testimoni. «Anche se non sanno dare indicazioni stradali, ricordo che spesso dicevano di sì a tutte le domande che ponevo – spiega – Per la paura di deludere. Le risposte affermative dell’incidente probatorio vanno lette alla luce di quest’ottica».
Sarebbero troppe, secondo il legale, le incertezze emerse durante il processo. Incertezze entro le quali si inserisce l’attività di indagine condotta da inquirenti e accusa. «Non sappiamo quasi niente con sicurezza: quanti erano a bordo, quanti ne sono morti e quando di preciso si è forato il gommone. Non sappiamo se erano legati, se sono stati picchiati, se si sono difesi o se erano distribuiti per etnie». Secondo Marchese, insomma, in questo processo sarebbe impossibile assecondare la regola dell’oltre a ogni ragionevole dubbio: «I fatti, così come li ha ricostruiti la Procura, non si sono mai verificati». Per la difesa l’impianto accusatorio pecca di clamorosi salti processuali: i sei dichiaranti, al momento dell’identificazione dei responsabili, si sono ritrovati tutti insieme nella stessa stanza, in pratica «si sono trasmessi dei ricordi». Kamarà non viene riconosciuto mai da nessuno. Mentre da ben quattro testi su sei vengono riconosciuti altri due migranti, che però non si trovano imputati in questo processo.
«Io metto in discussione la procedura, è tutto falsato – continua Marchese – Chi li ridà al mio cliente questi due anni passati dietro le sbarre? Se fosse successo ai nostri figli le nostre reazioni sarebbero ben diverse». E poi c’è anche l’elemento dell’aggravante: secondo i difensori, la Procura si sarebbe sentita costretta a tirarla in ballo perché altrimenti sarebbe venuto meno il movente. «Ma i fatti avvengono solo perché ciascuno voleva salvarsi. Fra i morti ci sono almeno due musulmani, così come ce n’è uno fra gli accusatori, quindi di che stiamo parlando esattamente?», insiste Marchese. «Ci sono state notevoli lacune investigative e superficialità indicibili da parte degli investigatori», gli fa eco l’avvocato Domenico Trinceri, difensore di un altro migrante. «Se le cose fossero andate come ricostruite dai pm – dice – il reato dovrebbe piuttosto essere quello di strage, di terrorismo di matrice islamica». Insiste soprattutto su un punto, questa mattina in aula: «Perché quindici persone che non si conoscono e di estrazioni diverse scelgono deliberatamente di buttare le persone dal gommone nel bel mezzo del Mediterraneo?», si domanda Trinceri, «perché non ucciderli in Libia, dove hanno vissuto la prigionia prima dell’imbarco a stretto contatto e dove grazie all’Isis certi reati non sono neppure puniti?».
Un altro punto spinoso sarebbe quello dei testimoni. Ad essere sentiti dagli inquirenti, infatti, sono sempre e solo i sei dichiaranti che da subito accusano i quindici a processo. «Perché non sono mai stati sentiti anche gli altri 74 sopravvissuti? – insiste la difesa – Anche loro, come gli altri, erano dei testimoni oculari». Ma l’elenco di «lacune» che i legali attribuiscono agli inquirenti e all’impianto accusatorio si allunga ancora, e in aula ci si chiede perché non siano mai stati interrogati neppure il comandante e i soccorritori della Ellensborg, unici testimoni delle condizioni in cui i migranti furono ritrovati. Tanti, insomma, gli interrogativi rimasti senza risposta, malgrado i mesi di dibattimento. «Questo processo potrà essere giusto – concludono i difensori – solo mettendo da parte i pregiudizi».