Mafie di tutto il mondo a confronto nel libro di Varese «Inaspettati grumi di mafiosità anche a Manchester»

Esiste una voglia di mafia nelle persone? «Sì», è la risposta secca di Federico Varese alla domanda del giornalista Peppino Lo Bianco. Ad ascoltarli è una platea attonita e silenziosa riunita nella biblioteca comunale di Casa professa. «L’avvicinarsi ad essa è spesso la necessità di avere un’appartenenza sociale, di possedere un’identità – continua la risposta -. Le democrazie faticano a combattere Cosa nostra, ma restano l’unico sistema in cui comunque vorrei vivere». Professore di criminologia all’Oxford University, è arrivato a Palermo per raccontare la sua ultima fatica letteraria, Vita di mafia. Amore, morte e denaro nel cuore del crimine organizzato. Un libro che va oltre la narrativa stessa e che si sforza di mettere a confronto le mafie del mondo, da quella siciliana a quella russa. «Ho cercato di capirle mettendole a paragone. Non mi limito a usare dati e statistiche, però. Vado nei luoghi, parlo con le persone, solo così si può raccontare davvero qualcosa – spiega il professore -. Si trovano grumi di mafiosità anche in luoghi inaspettati, come Manchester, anche se gli inglesi continuano a chiamare gang quelli che sono veri e propri gruppi criminali analiticamente associabili a quelli mafiosi».

Certo, parlare di mafia a Palermo per uno che palermitano non è, non deve essere semplice, Varese lo ammette subito. Tuttavia, nel suo modo di dialogare sull’argomento, traspaiono l’interesse quanto la competenza spesi su un argomento tanto sviscerato quanto, malgrado tutto, ancora effimero. Lui ne analizza, di ognuna, le ritualità, sempre le stesse, le iniziazioni, i dogmi, i codici. Tutte, dal sud al nord del mondo, non trovano spazio dove a regnare è un regime totalitario, che è un po’ una mafia di per sé. Ma più lo spazio aumenta, più esiste la possibilità che si infiltrino. Nelle democrazie, per esempio, «quelle fatte male»; o nei mercati, anche loro se fatti male. E lui, quei boss di cui racconta, a un certo punto li ha anche incontrati. È ancora uno studente universitario quando succede: vola fino in Russia per parlare con loro, per imparare a leggerli: «Non si arriva davanti a queste persone con supponenza. L’importanza di capire viene prima dell’importanza di credere e di combattere. Io volevo capire cosa pensassero la mattina guardandosi allo specchio, cosa pensavano di fare, quale fosse la loro quotidianità», racconta.

Nel libro Varese affronta il tema dividendolo in capitoli: si parte dalla comunicazione della mafia, uno dei problemi principali che i padrini di tutto il mondo prima o poi devono affrontare: «Devono fare arrivare al mondo esterno la loro minacciosità, per poi, più in là, risparmiare le energie in termini di violenza». Poi, il controllo del territorio, ossessione comune a tutte le mafie, che hanno «una vocazione a essere governo». E il cinema, che oggi ne restituisce un’immagine falsata e distorta, spesso celebrativa, anziché costruirne un racconto che le ridicolizzi e che vada oltre le consuete descrizioni. Capitolo dopo capitolo, si passa dall’affiliazione, vero e proprio momento di trapasso, un rito centrale che dà ai membri dell’organizzazione il senso di appartenenza a qualcosa, alla figura delle donne, che in questo rito non sono ammesse: «Loro sono escluse. Quando sono nate la maggior parte delle mafie, la donna era in generale esclusa da tutto – spiega Varese -. Le mafie si adattano, è vero, come con la tecnologia. Ma da questo punto di vista non è mai accaduto. La tesi è che se ammettessero le donne introdurrebbero un elemento emotivo, quello che le mafie temono di più è l’amore, che scardina tutto, a partire dai rapporti e dall’ordine». Un’esclusione di tipo funzionale, insomma.

Non è un caso, secondo l’autore, che proprio alcuni recenti blitz palermitani abbiano rivelato che a tenere le fila di interi clan ci fosse proprio una donna. Che, però, faceva comunque le veci di un marito dietro le sbarre. Un segno di debolezza: «La mafia è in crisi, non si è più in grado di dare fiducia agli affiliati e si ripiega sui legami familiari». E poi ci sono gli stereotipi e i falsi miti. Uno fra tutti, quello che distingue una mafia buona da una divenuta, successivamente, cattiva: «Non è mai stato così. Non è degenerata fino a sciogliere i bambini nell’acido. I mafiosi hanno dei valori solo per sé, non per gli altri. Non è cambiata lei, ma i mercati che ha sempre cercato di controllare», dice ancora il professore. C’è spazio anche per l’accostamento fra mafia e massoneria, binomio che di recente ha tenuto banco sulle cronache: due sistemi simili per alcune cose, ma dominate da un rapporto di opportunismo della prima nei confronti della seconda.

«Un libro, questo, che descrive i mafiosi come esseri umani, con un loro mondo di valori, con una loro dimensione religiosa e dei regolamenti cui rispondere. La loro è un’identità legata al sangue che non gli permette di accettare il diverso», commenta il sindaco Orlando, presente all’incontro di ieri sera. Mentre, a chiudere il dibattito è stato il video messaggio di Franco Maresco, che non risparmia attacchi all’impossibilità oggi di tracciare un confine netto fra mafia e antimafia, «colpa della spettacolarizzazione». 


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L’autore, professore di criminologia a Oxford, ha presentato alla biblioteca comunale di Casa professa il suo ultimo lavoro letterario, attraverso cui paragona riti, codici e dogmi tipici delle organizzazione criminali da Palermo a Hong Kong. «Volevo capire come fosse la quotidianità di questi padrini, cosa pensano, come si vedono»

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