«Non capisco perché quando mi chiedono soldi va bene se ci sono io, quando me li devono lasciare gli pare male». Non se lo spiega proprio Rosalba Crinò, per tutti a Misilmeri solo Rosy, l’unica donna tra gli arrestati nel blitz di ieri, Cupola 2.0. Una presenza, la sua, neppure troppo marginale, all’interno della famiglia mafiosa del posto. A soli 29 anni infatti vanterebbe la gestione, parallelamente a quella del negozio di famiglia in cui lavora, della cassa della cosca locale, con specifico riguardo ai soldi da destinare alle famiglie di chi si trova in carcere. Segno, questo, che uno dei più antichi stereotipi legati a Cosa nostra e alle sue regole, quello cioè di tenere fuori da ogni affare le donne, sia l’ennesima diceria da sfatare – così come il dogma del «non si toccano i bambini», che Claudio Domino, Giuseppe Di Matteo e tutti gli altri hanno decisamente spazzato via. Sembrerebbe talmente addentrata nelle dinamiche mafiose della sua zona, che addirittura si lamenta del fatto di avere poco credito e di non essere vista come una figura qualificata quando deve vestire i panni dell’esattrice.
Neanche 30 anni, insomma, e una caratura criminale già formata, sembrerebbe. Sconta, probabilmente, il fatto di avere un padre di tutto rispetto, così come molte altre donne di mafia prima di lei. È Maurizio Crinò, anche lui tra gli arrestati di ieri. La prima denuncia gli arriva nel 2004 per resistenza a pubblico ufficiale. Neanche due anni dopo ecco piombargli addosso un’altra accusa, ben più pesante, quella di tentato omicidio doloso e porto abusivo di armi in luogo pubblico. Accusa che gli vale la misura dei domiciliari, da cui però evade. Ma nel suo curriculum ci sono anche denunce per rissa e minacce. Mentre un collaboratore di giustizia, Salvatore Sollima, nel 2015 racconta ai magistrati di averlo visto per la prima volta insieme a un mafioso della zona, tale Alessandro Ravesi alias Colossi, che se lo sarebbe portato dietro per organizzare alcune intimidazioni in paese, «di mettere attack, di abbruciare cocchi machina, di fare cocchi cuosa». Gestisce un negozio di detersivi a Misilmeri dove, dal 2014, risulta tra i dipendenti anche la figlia 29enne Rosy, appunto, che fa la cassiera.
E sono tante le intercettazioni che dimostrerebbero, secondo la lettura che ne restituiscono i magistrati, la piena consapevolezza della figlia rispetto alle attività poco pulite del padre. Che l’aveva deputata a tutti gli effetti, verrebbe da dire, a fargli da tramite. È lei che tiene attraverso Whatsapp, ad esempio, i contatti con la donna di un uomo d’onore della zona ormai in carcere, in modo che non risultino contatti diretti con il padre. Ed è sempre lei che le consegnerebbe puntualmente le spettanze dovute per tirare avanti. Almeno fino a un certo punto: «Assicutala…glieli abbiamo dati», le dice intercettato telefonicamente il padre, per suggerirle di fare un passo indietro, forte del fatto che la consorteria mafiosa non fosse più tanto disponibile ad aiutare questa donna, rea a loro dire di adulterio nei confronti del marito detenuto.
Se Rosy ha gestito la cassa, del negozio e della famiglia, il padre di contro avrebbe gestito direttamente lei. Non solo comunicandole tutti i suoi spostamenti e incontri, ma pretendendo di essere puntualmente ragguagliato sulle somme da lei raccolte, su quelle presenti in cassa e sui personaggi che le facevano visita per depositare o incassare qualcosa. Tutto questo usando come base d’appoggio e, probabilmente, come copertura il negozio di detersivi della compagna di Maurizio Crinò, ignara però di ogni cosa. «Hai visto a chi gliela dobbiamo fare la rapina? A tua figlia!», scherza, intercettato, un sodale della famiglia di Misilmeri con il padre di Rosy. Un’allusione ulteriore non solo al ruolo che avrebbe ricoperto la ragazza all’interno della cosca locale, ma anche del fatto che tutti i suoi membri ne fossero a conoscenza.
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