«Perché mai noi siciliani dovremmo saper accogliere uno straniero meglio degli altri? Più generosamente, intendo. Solo per il fatto di costituire il risultato dellincrocio genetico di una ventina di popoli diversi?». Attorno a questa domanda ruota il libro Lampaduza, del giornalista e scrittore palermitano Davide Camarrone, edito da Sellerio, presentato sabato scorso nei locali della libreria Vicolo Cieco in Via Santa Filomena a Catania.
Il tema dellimmigrazione, che spesso viene confuso con quello dellintegrazione, a cui si lega a sua volta quello dellaccoglienza viene raccontato in queste pagine a partire dalla realtà e dalla storia di Lampedusa. O Lampaduza «Lam-pa-du-za (…) gli arabi la chiamano così». È un testo che racconta la memoria, come garanzia per il futuro, che racconta con taglio giornalistico degli spaccati del nostro tempo, della più grande emergenza migratoria che Lampedusa, la Sicilia, lItalia, un po meno lEuropa si trova a fronteggiare. Unisola isolata. Si cerca di fronteggiare lemergenza, ci si è provato. Si racconta dellindifferenza della vicina Malta, delle sfilate istituzionali, della morte, e della paura della morte. Di pescare la morte, uomini morti come pesci. In fondo al mare e impigliati fra le reti.
Tuttavia, non è sufficiente secondo lautore fornire al pubblico la notizia di cronaca, una notizia che vista la frequenza, forse, non è neanche più notizia, ma bisogna «raccontare la complessità del Mediterraneo ed i social network non bastano». Unoccasione, questa, per riflettere anche delliper informazione, dellabbondanza di notizie, articoli, commenti, opinioni. Troppe informazioni che ci illudono di aver appreso qualcosa a fine giornata, ma che poi, in fondo, ci consegnano semplicemente flash di notizie, frammentate qua e là. E proprio per questo motivo, la letteratura per Camarrone, interviene nel colmare questo vuoto. Una letteratura che interpreta e racconta il reale, il mondo, quello esterno e quello personale. Una letteratura che colmi la mancanza di spazi dove discutere di questa realtà e di questi mondi.
Nella «desertificazione culturale», sottolinea lautore, la letteratura deve appunto «interpretare il cambiamento che sta avvenendo e cercare la risposta in quella che potrebbe essere la soluzione». In altri termini considerare limmigrato come una risorsa da integrare nella nostra realtà. Forse la Sicilia, e lItalia, non è pronta per integrarsi. Questo non vuol dire che non sia generosa, ma ha semplicemente paura: «Lo spettacolo del confine di Lampaduza si serve di alcune parole chiave. Due in particolare. Invasione e clandestini. Carburante per quella macchina della paura (…). La paura dovrebbe riguardare solo i migranti. E invece siamo noi ad aver più paura. Di loro, e in fondo, di noi stessi, della nostra inadeguatezza», spiega Camarrone.
Da quando questa emergenza è ormai sotto gli occhi di tutti si è spesso fatto il paragone con noi italiani (ed europei in generale) migranti, a cavallo fra Otto e Novecento, nelle Americhe. Ma in questo libro lautore si spinge oltre, i suoi occhi e la sua memoria si ricollegano ad una delle pagine più tristi della storia contemporanea: la Shoah. Camarrone ricorda degli episodi in cui i migranti si sono trovati nudi sullisola, spogliati di tutto. Chiusi, come nei campi di concentramento, in attesa di fuggire o di morire. Suicidi, come gli ebrei, come Primo Levi, che non hanno retto al sentimento dei Salvati. E come gli ebrei, alcuni di loro, in occasione del naufragio del 6 settembre 2012, non furono creduti quando raccontarono che alcuni dei loro sventurati compagni di viaggio erano morti affogati. Giornalisti e non, attanagliati da questo senso di inadeguatezza e travolti da questo cambiamento antropologico. Camarrone conclude il suo libro consegnando al lettore una riflessione su un futuro che non cè dato sapere: «I naufraghi sono gli italiani dei prossimi anni», rendendo Lampedusa metafora di un difficile cambiamento, di viaggio e di vita.
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