A emergere nei documenti degli ultimi blitz sulle piazze di spaccio sono le difficoltà nei versamenti a detenuti e familiari. A dover lottare per riscuotere sono spesso mogli e compagne. L'intercettazione: «Li avete i coglioni? Mi dovete dare 50 euro a settimana»
La vita dei pusher e l’elemosina per il mantenimento Dopo gli arresti, pochi spiccioli e lamentele continue
«I soldi te li hanno mandati?». «Sì, 40 euro. L’altro giorno c’è andata tua mamma e i vanniau, scupini e cessi». Poche parole, e qualche insulto pronunciato in dialetto catanese, per sottolineare che quel denaro, nonostante tutto, alla fine era arrivato. «A me mi stanno mantenendo», spiega la donna mentre parla con il suo compagno che si trova in carcere. «Con 40 euro ti stanno mantenendo? – replica l’uomo dalla sala colloqui – E io mi sto facendo dieci anni di galera». Un faccia a faccia intercettato e trascritto nelle carte dell’operazione Bivio sullo spaccio di droga nel quartiere San Cristoforo. A emergere, ancora una volta, sono le crepe dell’ultimo anello della catena di montaggio della droga. Se c’è infatti una costante nelle ultime inchieste sulle piazze di spaccio a Catania è proprio quella delle difficoltà nel mantenimento di detenuti e familiari da parte dei gruppi che si occupano di vendere al dettaglio gli stupefacenti. Un meccanismo verticistico che sembra fare acqua perché, una volta che pusher e vedette finisco dietro le sbarre, emergono le falle del sistema criminale.
Simone Consolo viene arrestato il 30 maggio del 2017 nel quartiere San Cristoforo. I carabinieri lo bloccano mentre vende dosi per un totale di quasi un chilo di cocaina. Appena una settimana dopo, l’uomo si trova davanti la compagna in una saletta della casa circondariale di piazza Lanza, a Catania. Chiede senza giri di parole se colui che è considerato il capo di quel take away della droga si fosse fatto vivo, ma la donna risponde negativamente. «Non è venuto nessuno», gli dice. «Ognuno si piange le sue responsabilità se non mi manda i soldi», incalza a questo punto Consolo. Forte di non avere fatto nomi e quindi di non essere stato «sbirro» nel coinvolgere il gestore dello spaccio in quella strada. Qualche giorno dopo, secondo la ricostruzione degli inquirenti, la situazione sembra rientrare, almeno secondo l’opinione della compagna. Forte di avere ottenuto la promessa di 50 euro «ogni mercoledì».
Lo spartito non cambia nemmeno quando si passa alla situazione di una donna finita in manette perché sorpresa in casa con oltre un chilo di droga. Anche lei, come Consolo, viene intercettata in carcere mentre parla con la figlia. «I me soddi su ndi iddu. Ora ca succiriu stu fattu a cu sta aspittannu», che tradotto dal dialetto significa: «I miei soldi sono da lui. Adesso che è accaduto questo fatto (l’arresto, ndr) chi sta aspettando?». Qualche giorno dopo è la figlia dell’arrestata a intervenire davanti la madre: «Te ne toccano altri 50, per correttezza. Non è che ti stanno dando qualche cosa».
Un problema comune anche nel quartiere Librino. Nonostante una manovalanza sempre pronta a inserirsi, le grane non mancano. Al viale Biagio Pecorino 3 va in scena il blitz Chilometro zero. Anche in questo caso finiscono dietro le sbarre pusher e vedette ma a restare impresse nelle carte sono le continue lamentele degli arrestati. Quando i carabinieri arrestano Roberto Savasta non sanno che il suo è stato una sorta di sacrificio. Finire in manette anziché proseguire con una fuga che avrebbe portato le forze dell’ordine dritte dentro una casa in cui era nascosto un arsenale di armi. «Sono dovuto tornare indietro, altrimenti facevo arrestare anche a quello», dice alla madre che lo va a trovare in prigione. L’oggetto vero della discussione è però un altro: «Gli devi dire: li avete i coglioni? Lo mantenevate 50 euro a settimana. Si vendono tutti in quel palazzo». I pagamenti da discutere riguardano però anche qualche arretrato per il turno di spaccio: «La giornata che era 50 euro? Figli di suca minchia che sono». Pure Agatino Ternullo voleva indietro i suoi soldi e per ottenerli, nel 2016, invitava la compagna a recarsi nella piazza di spaccio del viale Biagio Pecorino 3. A quest’ultimo non sarebbe bastato nemmeno tatuarsi il nome del suo capo in un braccio: «Gli ho detto che “Se io devo morire per te. Devi morire anche tu per me”».