Il rodìo di un italiano di Sicilia

«Questo libro è nato per indignazione, ma non vi dirò perché. Al di là dell’evento, è comunque frutto di un’indignazione antica». Con queste parole Nino Milazzo, storico giornalista nato in Sicilia ma affermatosi fuori dalla sua terra, ha spiegato la genesi del suo libro, intitolato appunto “Un italiano di Sicilia” e presentato al Coro di Notte del Monastero dei Benedettini. 

Non si tratta solo di un’autobiografia, ma di un intreccio tra la vita intensa del Milazzo uomo e professionista e alcuni dei fatti politici e sociali più rilevanti della nazione. Il fascismo da ragazzo, la guerra e l’approdo alla democrazia, un percorso non solo personale, ma generazionale. 

Nino Milazzo ha trascorso dieci anni a “La Sicilia”, di cui è stato condirettore tra il 1987 e il 1989; in mezzo c’è l’esperienza di vicedirettore del Corriere della Sera, e poi vice vicario all’Indipendente, dove è stato “epurato”, ricorda lui stesso, perché «i direttori vogliono collaboratori che pensano poco e obbediscono sempre». Infine è stato anche direttore dell’emittente televisiva regionale Telecolor. 

Il celebre direttore definisce la stesura del romanzo «una liberazione». Uno sfogo per il disagio esistenziale provato a causa dei pregiudizi che la sua sicilianità gli attira, perché «agli occhi degli altri, la Sicilia non ha innocenti», spiega. Come quella volta che gli capitò di leggere un articolo, nella sua stanzetta-prigione in cui era stato confinato all’Indipendente per mancanza di obbedienza: «La Sicilia ha rotto i coglioni» scriveva un redattore. E Milazzo, che pure era scappato dall’isola, sente l’oltraggio, la violenza. 

Il libro è uno sfogo anche riguardo all’adesione giovanile al fascismo: «solo dopo l’Olocausto ho capito che ero stato dalla parte sbagliata», ammette Milazzo. Ed è questo che Francesco Merlo, autore della prefazione del libro, definisce “rodìo”: il tormento di un uomo che sente su di sé molte colpe, e spesso ne paga alcune che non gli spettano.

Un rapporto con la Sicilia che diventa Itaca, come nota il professore Tino Vittorio, e che non si capisce quale e quanta influenza possa avere sull’animo dei siciliani: «Un uomo può essere mai di Bronte come il pistacchio?». Una battuta, quella di Vittorio, con un retrogusto amaro. Del resto, come afferma lo stesso Milazzo, è difficile portare in giro per il mondo la propria “sicilianità”.  

Direttore, lei è nato in provincia di Catania. Perché dunque “un italiano di Sicilia”? In tempi di neosicilianismo non le pare fuori moda? 
«Rimango fortemente critico del sicilianismo. Sono convinto che la Sicilia sia in ritardo rispetto ai processi di modernizzazione ed è una distanza antica. Al centro della mia testimonianza c’è proprio la difficoltà di portare in giro per il mondo la mia sicilianità: la mia soggettività è stata ferita dal pregiudizio, dai luoghi comuni e anche da questa consapevolezza dei nostri ritardi culturali e sociali».

E proprio fuori dalla Sicilia, da via Solferino ha guardato uno dei periodi più spaventosi della storia dell’Italia repubblicana: quello delle stragi, del terrorismo, della politica sequestrata da lobbisti senza scrupoli. Come reagì ad esempio quando seppe che la loggia segreta di Licio Gelli aveva di fatto “occupato” la testata più prestigiosa del giornalismo italiano, il Corriere della Sera?
«Innanzitutto voglio dire che il Corriere mi ha dato moltissimo in termini di acquisizioni e consapevolezze nuove, la mia vita ha avuto una svolta grazie a questi influssi culturali. Però è vero, ho conosciuto anni terribili della realtà italiana, nell’osservatorio forse tra i più attrezzati, il Corriere. Ho conosciuto l’empietà del terrorismo e ricordo sempre il giorno in cui fu ucciso il collega Walter Tobagi: eravamo in riunione, interrotta da un cronista che portava la notizia. Siamo subito fuggiti per andare sul posto e lo abbiamo visto, era riverso in una pozza di sangue in una giornata di pioggia. Dopo ho conosciuto anche l’infamia della P2. Sono stati giorni di grande tensione per il Corriere, culminata nelle dimissioni del direttore Franco Di Bella, ma che segnò anche una divisione profonda della testata. Sono giornate che non dimentico, tuttavia il bilancio della mia esperienza al Corriere è positivo: la mia vicedirezione coincide con gli anni della rinascita, della ricerca della stabilità che era venuta meno durante il periodo della P2, che rappresenta anche un tradimento per l’anima del giornale. Anche perché alcuni di noi tradirono ed è stato doloroso e mortificante». 

Non meno doloroso, è stato anche il rapporto con il quotidiano “La Sicilia”, di cui è stato condirettore per un anno e mezzo. Fu un errore accettare quel ruolo?
«Se la mettiamo sul piano della mia esperienza personale, è stato un errore, sì. Io c’ho rimesso parecchio, i miei orizzonti si sono oscurati, però ne valeva la pena e in ogni caso non mi pento. Ero appena stato confermato al Corriere come vicedirettore, ma mi sono dimesso perché ho sentito forte il richiamo splendido e maledetto di questa terra, e sono tornato. L’esperienza si è chiusa male, ma mi ha permesso di conoscere meglio la realtà siciliana con le sue negatività. Dal punto di vista umano ho conosciuto cosa vuole dire essere disoccupato. Però lo rifarei. Comunque io ero stato molti anni a La Sicilia ancora prima del Corriere, quindi per me rappresenta il luogo della prima formazione e poi della maggiore consapevolezza. L’esperienza della “seconda Sicilia” non cancella la prima». 

Restiamo in tema. Lei ha spesso insistito sull’indipendenza del giornalista. La redazione di Report si fa anch’essa vanto di saper dare botte “a destra e a sinistra”? Le piace il loro modo di fare giornalismo?
«A me piace moltissimo, è sicuramente una bella realtà del giornalismo italiano. Anzi, sono rimasto impressionato dalla reazione negativa di Catania alle verità emerse nel corso della trasmissione dedicata proprio alla nostra città. Report non ha detto nulla che già non si sapesse, ma siamo così disabituati alla verità storica da stupirci per quello che dovremmo sapere o che forse sappiamo». 
 
Ma sono rimasti quasi i soli a coltivare certi generi come l’inchiesta. Spesso questo si imputa alla rarità degli “editori puri”, le figure imprenditoriali dedite alla esclusiva produzione di giornali. Cosa ne pensa? 
«E certo che questa è una delle cause principali della decadenza del giornalismo italiano. Ormai gli editori, quasi tutti, non rappresentano più l’interesse del giornale, e quindi quello del lettore o telespettatore con cui si deve identificare. Hanno altri interessi da coprire e tutelare: la grande industria, il commercio, la finanza. Ci sono anche i banchieri che acquistano i giornali per farne strumento di speculazione su altri settori della loro attività. E’ un argomento che mi tocca sia dal punto di vista professionale che di sensibilità». 
 
Per concludere, una domanda scontata ma che viene spontanea pensando alla sua esperienza. Molti giovani che desiderano intraprendere la professione giornalistica non vedono altra via se non quella di abbandonare il contesto locale, che sembra completamente asfittico. Ci consiglia di fare la valigia quanto prima? 
«Io dovrei dire di sì, però… la mia razionalità mi dice: resistete». 

Ancora una contraddizione, ancora un dubbio, che forse appartiene a ogni “italiano in Sicilia”. Ma che adesso Nino Milazzo presenta con un sorriso fiducioso sulla labbra e una vigorosa stretta di mano ad accompagnare quell’ultima parola, «resistete».

Benedetta Motta

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