«Il nucleare? Non conviene»

Ancora una forte scossa di terremoto in Giappone e gli occhi del mondo tornano a guardare alla centrale nucleare di Fukushima, dopo il disastro causato dallo tsunami poco meno di un mese fa. Intanto si è riaperto il dibattito sui rischi del nucleare e le possibili contaminazioni, in un momento in cui l’Europa intera era pronta ad investire sulla costruzione delle centrali. In attesa del referendum del 12 e 13 giugno prossimi, il Governo italiano slitta di un anno tutte le decisioni, prendendosi una “pausa di riflessione”.

Per fare il punto, Step1 ha intervistato Guido Raia, ingegnere nucleare che ha lavorato dieci anni per l’Ansaldo, azienda che negli anni ’70 e ’80 si occupava della progettazione dei reattori: «Il nucleare in Italia, al di là della sicurezza, non conviene perché dovremmo intraprendere un iter lungo e costosissimo».

Ingegnere Raia, dopo l’incidente nucleare, a Fukushima la situazione peggiora giorno per giorno: le radiazioni in aria e in mare sono altissime e il rischio di fusione del nucleo non è ancora scongiurato. Quanto sono vere le rassicurazioni che arrivano dal Governo giapponese?

«A Tokio stanno facendo finta di nulla perché avrebbero dovuto evacuare milioni di persone. Se succede qualcosa di grave, non si dice mai che cosa sta succedendo davvero perché le conseguenze sarebbero ancora più disatrose».

E adesso, in tutto il mondo, è allarme radiazioni e infuoca la polemica su “Nucleare sì, nucleare no”. Al di là della tragedia, quanto il nucleare può essere considerato sicur
o?
«Per quanto si dica che adesso il nucleare sia sicuro, esiste sempre un rischio residuo, cosa che negli impianti non nucleari non solo non avviene, ma non comporta conseguenze così disastrose».

Cosa si intende per rischio residuo?
«Calcolare il rischio residuo significa rendere incredibile un evento, attraverso oppurtuni calcoli. Se la probabilità che avvenga un incidente è al di sotto di una parte su 10 milioni, un incidente è considerato incredibile e quindi non se ne tiene conto. Mettere in sicurezza una centrale vuol dire rendere incredibile il maggior numero di incidenti possibili con conseguenze disastrose che vanno verso l’esterno, compreso il rischio di esplosione nucleare e la perdita del raffreddamento, com’è accaduto adesso in Giappone».

Ma basta affidarsi solo ai dati e alle statistiche quando si tratta di prevenire dei disastri enormi come quello di Fukushima?
«Agli incidenti sono assegnati specifici codici di calcolo, ma, a mio parere, lasciano il tempo che trovano. Servono solo a stabilire se una soluzione è più sicura dell’altra, ma quanto sia veramente sicura una soluzione non si sa in assoluto. I numeri sono numeri, statistiche, ma gli impianti sono così complessi che non si può tenere conto di qualsiasi cosa succeda».

Quindi le centrali nucleari, per quanto possano essere moderne e tecnologicamente avanzate non potranno mai essere sicure al 100%. Basta questo per essere contrari? Alla fine, nessun tipo di centrale per la produzione di energia è totalmente sicura o fuori dal rischio di incidenti.
«Se si è contrari all’idea del nucleare, non ci si può basare sulla sicurezza, perché chiunque può dire che adesso le centrali sono sicure. Altra cosa è il discorso di costi, dove, anche in base alle stime ufficiali, si evince che non è assolutamente conveniente. È chiaro che sulla gente fa più presa la sicurezza, però, finita l’emergenza, bisognerà sensibilizzare anche sugli altri problemi».

Lei è un ingegnere nucleare contrario alle centrali, nonostante il suo lavoro sia stato progettarle. Ci spiegherebbe il perché della sua posizione, anche sul piano della sicurezza?
«Sono contrario proprio perché ho fatto l’ingegnere nucleare. Ammesso che io faccia i miei conti come si deve, io mi occupo di una sola parte del reattore. L’attuale formazione conta di creare specialisti, ma gli specialisti non sanno tutto: è difficile in una struttura complessa creare l’interfaccia, mettere assieme le varie cose e fare sì che funzionino. È proprio l’interfaccia, spesso ad essere fonte di problemi grossi».

Potrebbe spiegarci meglio?
«Nel caso del reattore giapponese, è andato tutto bene finchè ha funzionato tutto. A causa del fortissimo terremoto, si è spento il generatore elettrico che, però, non viene gestito come una componente fondamentale per la sicurezza dell’impianto, ma solo come un generatore. Non si poteva pensare ad un evento del genere, ma è proprio questo il problema. Non possiamo mai essere sicuri al 100% dell’incredibilità di un evento».

Nonostante il Giappone sia una regione ad alto rischio sismico, la centrale di Fukushima non ha resistito come avrebbe dovuto ad un terremoto. Come mai? Non sono stati fatti i dovuti calcoli al momento della progettazione?
«Tutte le centrali vengono costruite con criteri antisismici, anche in Italia, in base al sisma di riferimento, il più forte che storicamente c’è stato in quella zona. Forse non c’era mai stato un terremoto così forte, ma bisognava tenerne conto».

Le centrali di ultima generazione che livelli di messa in sicurezza hanno raggiunto?

«Quelle che si costruiranno adesso prevedono l’impatto di un grosso aereo sopra il reattore. Questo implica una struttura a bunker, con una copertura in cemento armato enorme, ma con costi sempre più alti. Ma questo tipo di precuzione non esclude del tutto altri tipi di incidenti imprevisti».

Il materiale radioattivo fuoriuscito dalla centrale ha dato origine da una enorme nube tossica che ha contaminato il territorio giapponese e che, nei giorni scorsi, ha raggiunto anche l’Europa e l’Italia. C’è rischio di contaminazione anche dalle nostri parti?

«No, siamo troppo lontani. Ma c’è da dire che le contaminazioni nucleari hanno delle conseguenze di mortalità lineari: immaginiamo che la dose mortale sia un quantitativo x di radiazioni su una persona. La stessa dose, mille volte più bassa, però su mille persone, produce sempre un morto. Se io dilusco le radiazioni, è vero che la dose è molto bassa e che forse non succederà niente, però, mediamente, ci sarà sempre lo stesso numero di vittime dovute a quella dose. È statistico».

Dopo il disastro giapponese, l’Europa ha tirato un brusco freno a mano sull’energia nucleare. Anche in Italia, dove fino ad un mese fa si era pronti a costruire le centrali e ad investire sul nucleare, il Governo si è preso una “pausa di riflessione” di un anno. Era necessaria una tragedia per rendersi conto dei rischi?
«Io non la vedrei così positivamente. Il Governo italiano sul nucleare sta facendo una moratoria in attesa che si calmino le acque. Io fino ad ora non ho visto dei passi avanti. Si deve ancora avviare un inter lunghissimo, ricostituire un’industria italiana capace di seguire il nucleare perché quella che c’era, dove io lavoravo (Ansaldo nucleare, n.d.r.), è stata distrutta. Bisogna formare il personale, ripristinare le competenze, fare i diversi progetti perché ogni centrale va costruita ad hoc per il territorio in cui verrà a trovarsi. Alcune parti vanno progettate appositamente, con diversi requisiti antisismici, e così via. Questo porta via un certo numero di anni. Senza contare quelli che passeranno per la realizzazione».

Quanto tempo ci vorrà?
«Solo la realizzazione dell’immenso bunker antiaereo in cemento richiede 4-5 anni: costruendone due contemporaneamente, dovranno essere messi a lavoro tutti i cementifici italiani. La capacità di costruzione italiana è questa, che comunque dovrebbe essere alternativa ai lavori per il ponte sullo Stretto: il cemento o lo si utilizza per una cosa o per un’altra. Ammesso quindi che ci sia già un progetto pronto e un’industria capace di seguire il nucleare, in Italia, per avere le prime centrali dovremmo aspettare tra i dieci e i quindici anni».

Caorso, Montalto di Castro, Trino, Garigliano: tutte centrali nucleari italiane attive tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80. Poi, nell’86, il referendum prima e Cernobyl dopo, hanno decretato un lungo stop sulla questione, durato fino a pochi anni fa. In che condizioni si trovano adesso queste centrali?
«In Italia le centrali vecchie sono state tutte chiuse, nessuna è in attività ma costano ugualmente perché non è stato risolto il problema dello smaltimento: i bidoni con le scorie radioattive sono ancora nei piazzali delle vecchie centrali, e bisogna tenerli continuamente sotto controllo finché non si troverà una soluzione. Il punto è trovare un luogo dove poter depositare queste scorie per millenni».

Si è pensato alle possibili soluzioni per smaltire queste scorie?

«Chiuderle, ad esempio, all’interno di miniere di sale, perché geologicamente sono prive di acqua. Il progetto è stato portato avanti solo negli USA ma non è mai andato in porto a causa dei costi troppo elevati: le miniere si dovrebbero provvedere di sistemi di ventilazioni molto complessi ed efficenti per centinaia di anni e non è così semplice realizzarli».

Umberto Veronesi, presidente dell’Agenzia per la Sicurezza Nucleare del Governo, ha dichiarato che «l’Italia, senza il Nucleare, è destinata a morire. Il petrolio sarà esaurito in mezzo secolo e altre fonti non saranno sufficienti a garantire la produzione dell’energia di cui abbiamo bisogno». Le scorte di uranio, invece, garantiranno il fabbisogno energetico più a lungo?
«Non è che ci sia poi tutto questo uranio nel mondo. Per questo, in Francia si era progettato il Superphénix, un reattore veloce che permetteva di introdurre come combustibili uranio naturale più plutonio, e che lo avrebbe anche prodotto. Una centrale nucleare standard lavora con uranio naturale arricchito: si fa una separazione particolamente laboriosa prelevando uranio 235, fissile, e si miscela a quello naturale per arricchirlo. Quindi, di tutto l’uranio che esiste, per le centrali nucleari ne viene usato solo una parte. Grazie ai reattori veloci a plutonio, invece, avremmo una scorta di combustibile molto più grande. Ma il progetto è stato abbandonato perché troppo costoso».

Per quanto tempo basterebbero le attuali scorte di combustibili per le centrali nucleari?
«Il Superphénix sarebbe potuto durare 400 anni, mentre con i normali reattori potremmo prudurre energia nucleare per meno di un secolo, tra i 50 e i 60 anni».

Viste le scarse risorse di combustibile, quanto è vero che produrre energia nelle centrali nucleari costerebbe meno rispetto alle altre fonti, anche rinnovabili?
«Questo basso costo del nucleare non è che sia poi così vero. È vero che adesso potrebbe avere dei costi contenuti perché le centrali sono poche, ma se per la produzione di energia si optasse per una scelta totalmente nucleare in tutto il mondo, l’uranio comincerebbe a scarseggiare. L’uranio si trova dappertutto, specialmente in zone vulcaniche come la nostra, però si tratta di parti per milioni, ovvero si dovrebbero macinare migliaia di tonnellate di roccia per trovarne una discreta quantità. C’è, è vero, ma i costi per estrarlo sarebbero altissimi».

A proposito di costi, dati alla mano, quanto costerebbe al nostro Paese la costruzione delle centrali?
«Da fonte Enea (Agenzia nazionale nuove tecnologie, n.d.r.) sappiamo che una centrale nucleare di terza generazione costerebbe circa 4miliardi e mezzo di euro, senza contare i costi per la chiusura delle vecchie, ad oggi intorno agli 11 miliardi. Facendo i calcoli, una centrale nucleare costerebbe in tutto tra i 7 e gli 8 miliardi. Invece, mille megavatt di un impianto fotovoltaico casalingo, con i pannelli sul tetto, quindi non ottimizzato dal punto di vista dei costi perché le centrali, in proporzione, costerebbero molto di meno, siamo intorno ai 7 miliardi, quindi tanto quanto. Il fotovoltaico costerà sempre meno, mentre il nucleare sempre di più. Non solo: con il solare possiamo partire subito, ed avere, da qui a dieci anni, l’equivalente in energia che produrrebbero le 4 centrali nucleari che si vogliono costruire. Mentre, le centrali, da qui a dieci anni non ci saranno, anche a volerle fare subito».

Ma allora, se in Italia le Regioni si oppongono, in Europa si chiudono le centrali e i costi per realizzarlo sono enormi, perché il Governo insiste sul nucleare quando, invece, si potrebbero finanziare le energie alternative? Quali interessi si nascondono dietro?
«Il nucleare andrà in mano a grosse industrie per grossi appalti. È tutta una questione politica, perché le grandi aziende possono dettare legge ai governi. Ma bisogna capire anche chi ci tiene veramente a tutto questo. Un’industria nucleare non c’è più, l’Enel non ne vuole sapere, ma è chiaro che nel momento in cui si partirebbe col nucleare, chi se ne occuperà si vedrà arrivare in tasca moltissimi soldi. Le fonti alternative, invece, sono un filone che sfugge. È un nonsense perché, a parità di costo, l’occupazione sarebbe enormemente maggiore sulle fonti alternative, proprio perché molto più diffuse sul territorio e richiedono quindi molta più manodopera e lavoro, però, di piccole industrie, che non hanno peso politico. Interessa anche ai numerosi esperti e commissioni sul nucleare che si andranno a formare e per cui i finanziamenti si perderanno in mille rivoli».

In Italia basterebbero le fonti alternative per il fabbisogno energetico?
«Per il nucleare che si può fare in Italia, quindi due centrali da qui a quindici anni, sì».

È giusto definire il nucleare “energia pulita”?

«Rispetto alle rinnovabili, no. Il carbone o il petrolio inquinano, mentre la centrale nucleare, se non ci fosse il problema di rischio per la popolazione, sarebbe più pulita. Per esserlo, però, bisognerebbe trovare dei luoghi desertici dove costruirle, in modo che, per gli eventuali incidenti, nel raggio di centinaia di chilometri non ci siano pericoli per la popolazione. Senza contare la produzione delle scorie radioattive».

Il Governo è già al lavoro per stilare una mappe definitiva delle regioni dove sorgeranno le centrali. Quali sono i siti meno pericolosi in Italia?
«La Sardegna, perché è la meno sismica o zone poco popolose, come la Pianura Padana. La più pericolosa è la Sicilia, perché siamo proprio sopra ad una faglia. Ma quando si parla di “No al nucleare” non è vincente parlare di rischio, perché si può sempre progettare in sicurezza per un determinato sito».

Tutte le regioni rifiutano la costruzione delle centrali perché garantiscono di essere autosufficienti a livello di produzione energetica. La Sicilia, ad esempio, è davvero autosufficiente?
«Sì, come tutte le regioni che hanno sul loro territorio impianti petroliferi. E poi, non abbiamo una così alta concentrazione di industrie che comportano alti consumi di energia. Al limite, ci vuole poco ad essere autosufficienti, comprando energia dalla Francia».

In che senso?

«Una delle caratteristiche di una centrale è che, per rendere economici i costi di gestione, deve sempre stare accesa. La Francia produce energia nucleare e, in questo modo, tanta più energia elettrica di quella che serve alla popolazione e ha cominciato a venderla agli altri Paesi, ma sottocosto, altrimenti dovrebbe spegnere gli impianti. L’Italia compra questa energia. Se è conveniente, ben venga che si compri, piuttosto che spendere molto di più per la costruzione delle centrali».

Perla Maria Gubernale

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